Ortega e Heidegger - Studentville

Ortega e Heidegger

Confronto tra i due.

Le riserve manifestate nei riguardi di Heidegger da Ortega – il quale si ò comunque in più occasioni professato un suo ammiratore – potrebbero venire anch’esse ricondotte alla considerazione che per il filosofo spagnolo non solo ò illegittimo trasformare sostrati in essenze, ma che nessun sostrato umano ò riducibile ad una sua presunta essenza, in qualsiasi modo la si consideri, costituendo piuttosto la risultante di un complesso di modalità  d’essere e di prospettive culturali che interagiscono tra loro senza stratificarsi necessariamente secondo una determinata struttura ontologica, e pertanto senza aver bisogno di alcun gergo particolare per giustificare tale struttura inglobandone i riferimenti salienti in ogni scansione concettuale. Sotto questo profilo, la filosofia orteghiana potrebbe assomigliare per certi versi a quello che sarebbe potuta essere quella di Heidegger una volta passata al setaccio delle critiche del filosofo francofortese, ma anche di quelle di Calogero e di Lowith. Ortega può infatti fornirci un valido esempio di come sia possibile introdurre certe tematiche ed incentrarvi la propria riflessione anche facendo a meno di un gergo specifico e conservando un livello stilistico di esemplare intelligibilità . Lasciando i concetti nella loro forma prosaica, in un rapporto di continuità  con la riflessione che li ha originati e con l’esperienza della vita che ne costituisce lo sfondo, potremmo dire, citando ancora una volta le parole di Adorno, che l’argomentazione orteghiana trascende “ciò che dice tramite ciò che dice nel corso del pensiero”, trascendendo quindi ogni volta sè stessa in forma dialettica. Quest’aspetto della sua opera e del suo stile non costituisce un effetto involontario di scarso rilievo: “la mia più grande preoccupazione” – scrive infatti Ortega – “ò che anche il lettore meno colto non si perda in questi luoghi impervi in cui l’ho portato: ciò mi costringe a ripetermi più volte e a distinguere le tappe della nostra traiettoria” (Au, 266). Così come Adorno, anche Ortega affronta il tema del linguaggio heideggeriano, e anche a suo giudizio Heidegger “non ò nè più nè meno difficile di qualsiasi altro pensatore privilegiato, cioò che abbia avuto la fortuna di vedere per la prima volta paesaggi finora mai visti” (Fe, 174). Tuttavia, a differenza di Adorno, oltre ad essere un critico a volte severo di Heidegger, Ortega ò anche un suo estimatore, e tale posizione ambivalente si riflette in particolare nell’analisi del suo “gergo” filosofico. Nelle breve saggio sul convegno di Darmstadt del 1951 egli per esempio così si esprime a proposito dello stile heideggeriano: “Heidegger, come ogni grande filosofo, ingravida le parole e da queste poi emergono i più meravigliosi paesaggi con tutta la loro flora e tutta la loro fauna” (Fe, 173). Sembra una dichiarazione di stima incondizionata, e tuttavia, nello stesso scritto, troviamo anche il passo seguente: “Heidegger ò profondo sia che parli del ‘bauen’ che di qualsiasi altra cosa. Ma siccome so dire soltanto quello che penso e devo dire quasi tutto ciò che penso, ho bisogno di aggiungere che non solo ò profondo ma che, inoltre, vuole esserlo, e questo già  non mi va più bene. Heidegger, che ò geniale, soffre di mania di profondità . Perchè la filosofia non ò soltanto un viaggio verso il profondo. E’ un viaggio di andata e ritorno ed ò quindi anche portare il profondo in superficie e renderlo chiaro, evidente, ovvio. Husserl, in un famoso articolo del 1911, disse che considerava un’imperfezione della filosofia quello che in essa era sempre stato lodato, cioò la profondità . Nella filosofia si cerca precisamente di rendere evidente ciò che ò latente, di portare in superficie ciò che ò profondo, di arrivare a concetti chiari e distinti, come diceva Cartesio” (Fe, 173-174). Pur non considerando Heidegger un pensatore difficile Ortega, reputando la chiarezza un pregio essenziale di ogni filosofia, in quanto sintomo della piena consapevolezza conseguita sui temi che tratta, ritiene che il pensatore tedesco vi rinunci spesso a causa della sua mania di “profondità ” e di una certa tendenza a “sguazzare nell’abissale” (cfr., Fe, 174). Ciò non toglie tuttavia che apprezzi il suo stile e non ne risparmi le lodi. Difficile, secondo Ortega, non ò Heidegger, ma veramente difficili – e ingiustificatamente difficili – sono Kant, Fichte, Hegel, “perchè nessuno dei tre vide mai con piena chiarezza ciò che pretendeva di aver visto. Questa affermazione sembra insolente, ma coloro che hanno studiato bene questi tre pensatori geniali sanno che ò vero, anche se non hanno il coraggio di dichiararlo. No, Heidegger non ò difficile; anzi Heidegger ò un grande scrittore. Questo suonerà  agli orecchi di non pochi tedeschi come un nuovo paradosso. Proprio a Darmstadt ho sentito dire con mia sorpresa, da molte persone, come cosa già  decisa e scontata, che Heidegger tormenta la lingua tedesca, che ò un pessimo scrittore. Mi dispiace di dover dissentire totalmente da una simile opinione… ” (Fe, 175). Ortega giunge a dire che – tenendo conto delle difficoltà  che ogni filosofo autentico si trova di fronte – quello di Heidegger gli sembra “uno stile meraviglioso” (Fe, 176). Ogni pensatore infatti “si trova davanti alla lingua in una situazione abbastanza drammatica”, di fronte alla quale “non ha altra scelta che crearsi un linguaggio perfino per intendersi con se stesso (Fe, 178)”. “Stando così le cose” – si chiede ancora Ortega – “in cosa consiste un buono stile filosofico? Secondo me consiste nel fatto che il pensatore, evadendo dalla terminologia vigente, si immerge nella lingua comune, ma non per usarla e basta, per usarla così com’ò, ma riformandola partendo dalle proprie radici linguistiche, tanto nel vocabolario come, a volte, nella sintassi (Fe, 178-179)”. Da questo punto di vista Heidegger avrebbe la capacità  di trapassare e annullare il senso corrente e più esterno della parola, facendo invece emergere dai suoi strati semantici sottostanti il senso fondamentale, da cui i significati più superficiali provengono e che parallelamente nascondono (cfr. Fe, 179). Secondo Ortega lo stile ò sempre, sia nelle arti, sia nella vita, “qualcosa che ha a che vedere con la voluttuosità , ò una forma sublimata della sessualità “, e quello filosofico di Heidegger, “così egregiamente riuscito, consiste soprattutto nell’etimologizzare, nell’accarezzare la parola nella sua radice arcana” (Fe, 180). Rispetto al problema dello stile filosofico Heidegger non costituisce certo per Ortega il caso più discutibile, ma tale problema sembra invece riguardare l’intera tradizione filosofica. “Un buono stile filosofico ò stato molto poco frequente nel passato. L’argomento non ò mai stato toccato. Nessuno, che io sappia, si ò occupato dello stile filosofico e della sua storia. Se qualcuno lo facesse troverebbe molte sorprese… ” (Fe, 181). Ad un primo sguardo, le maggiori riserve di Ortega non sembrano quindi collegate all’aspetto stilistico dell’opera heideggeriana, ma andrebbero piuttosto ricercate nel modo di tematizzare e sviluppare alcuni concetti affini reperibili nell’opera dei due autori. Di fronte al dubbio, avanzato da alcuni suoi contemporanei, che la sua filosofia abbia attinto ampiamente da quella del filosofo tedesco, Ortega, pur riconoscendo e sottolineando alcune affinità  di fondo, tiene a precisare che sono al massimo due o tre i concetti di Heidegger che non preesistano, a volte con una anteriorità  di tredici anni, nei suoi saggi (Fi, 266). “Occuparsi dell’avvenire ò pre-occuparsi. L’avvenire ci occupa perchè ci preoccupa: Heidegger ha chiamato questo ‘Sorge’, ma io lo chiamavo già  da molti anni prima – e l’ho pubblicato nel 1914 – ‘preoccupazione’ (Fe, 236). Ma in questo contesto, nel rivendicare cioò l’autonomia e talvolta la priorità  del suo pensiero rispetto a quello heideggeriano e nel contrapporgli in modo sottile la migliore pertinenza del proprio lessico filosofico alle problematiche che si propone d’introdurre, si spinge ad avanzare critiche che mettono in una luce completamente diversa gli elogi che abbiamo visto in precedenza e che rivelano anche qualche analogia con le critiche mosse da Adorno. “L’esagerazione del concetto d’essere praticata da Heidegger si spiega facendo notare che la sua formula ‘l’uomo si ò sempre interrogato sull’essere’ o ‘s’interroga per l’essere’ acquista senso solo se per essere intendiamo tutto quello su cui l’uomo si ò interrogato; cioò, se facciamo dell’essere il gran gattopardo, ‘la bonne à  tout faire’ e il concetto omnibus. Però questa non ò una teoria; questa inflazione del concetto d’essere sopravviene proprio quando tutto raccomandava l’operazione contraria: restringere, precisare il suo significato” (Pl, 270). Come se non bastasse, Ortega sostiene che in Essere e Tempo Heidegger dimostra di non avere idee abbastanza chiare su cosa sia “l’essere” di cui parla con tanta insistenza. “E’ inconcepibile che in un libro intitolato Essere e Tempo, dove si pretende di ‘distruggere la storia della filosofia’, in un libro, inoltre, composto da un calvo e furioso Sansone, non s’incontri la minima chiarezza su ciò che significa ‘Essere’, e tuttavia s’incontri questo termine modulato in innumerevoli variazioni flautate… (Pl, 275)”. Poi la sua critica si fa più mirata e spregiudicata. Heidegger distingue infatti secondo lui tre tipi di essere: “l’essere come servire per qualcosa, che ò il modo di essere degli utensili o strumenti (Zuhandensein); l’essere del martello e dei martelletti. L’essere come ‘trovarsi qui – ciò che incontriamo qui – (Vorhandensein), e l’essere come ‘stare nel qui’ (Da -sein), che ò l’essere dell’uomo; e che in Heidegger prende il posto del consueto e naturale termine ‘vita’ con l’arbitrarietà  terminologica che ò sempre stata frequente nei pensatori germanici; i quali, non sono semplicemente ‘soli’ come ogni creatura umana, ma convertendosi in modo anomalo in ‘solitari’ rinchiusi dentro di sè, ‘autistici’, invertono il linguaggio destinato a far comunicare l’individuo col suo prossimo e si mettono ‘a parlare con se stessi inventando una lingua di uso intimo e intrasferibile (Pl, 275-276)”. Che significato assumono dunque, alla luce di questi passi, i precedenti elogi allo stile heideggeriano? Possibile che lo stile “meraviglioso” di cui parlava poc’anzi fosse capace di così poca chiarezza su temi tanto fondamentali? Difficile crederlo, soprattutto considerando l’importanza attribuita da Ortega proprio alla chiarezza e distinzione che dovrebbe caratterizzare le idee filosofiche. Le precedenti e apparentemente contrastanti valutazioni potrebbero tuttavia risultare compatibili qualora interpretassimo quegli apprezzamenti come venati da una riserva ironica di stampo socratico, e li considerassimo rivolti alla loro efficacia retorica piuttosto che alla loro chiarezza e pregnanza teoretica. Tuttavia, sebbene la prosa di Ortega sia spesso venata da una certa ironia, l’importanza che l’opera di Heidegger ha avuto nello sviluppo della filosofia orteghiana induce piuttosto a ritenere di trovarci di fronte a un giudizio oscillante e ambivalente, sulla cui linea divisoria vale la pena di soffermarsi. Se da un lato infatti Ortega apprezza lo stile di Heidegger al punto di ritenerlo capace di accarezzare le parole fino alle loro più arcane radici e di “mettere il lettore in immediato contatto con l’etimologia della lingua tedesca”, permettendogli addirittura di risalire fino all’anima collettiva tedesca, tale stile lascia però trasparire a suo avviso – come abbiamo visto – una certa mania di profondità , tende cioò a gonfiare i concetti, e primo tra tutti quello di “essere”, il quale, nonostante le molte pagine che gli sono dedicate, rimane secondo Ortega sostanzialmente non chiarito. Anche la sostituzione del termine “vita” con quello di “Hallarse ahi” (Dasein) testimonierebbe secondo Ortega della diffusa arbitrarietà  terminologica sempre presente nei pensatori tedeschi, i quali sarebbero portati a usare il linguaggio non per comunicare innanzi tutto con altri esseri umani, ma essenzialmente per comunicare con sè stessi, dando vita a linguaggi privati non trasferibili (Pl, 276). Se quest’ultima attitudine ò propria di ogni linguaggio, nel caso di Heidegger essa sembra sviluppata in maniera ipertrofica, tale cioò da comportare un’atrofia dell’altra irrinunciabile funzione di ogni linguaggio, ovvero di quella che aspira a farsi intendere dagli altri e a intenderli (Ibidem; nota). Venendo ora alle critiche più specificatamente teoretiche, si può notare come queste siano strettamente collegate ad osservazioni “stilistiche”, che ci accompagnano quindi fino al cuore delle riserve orteghiane sulla filosofia di Heidegger. Pur considerando Essere e Tempo un’opera “mirabile” (Fi, 266) e pur dichiarando il proprio debito nei confronti della filosofia tedesca in generale (Fi, 267), Ortega – lo abbiamo visto – sostiene che nell’opera heideggeriana vi sono appena due o tre concetti che non preesistessero, “a volte con una anteriorità  di tredici anni”, nei suoi libri. Senza entrare qui nel merito di tale convinzione, bisogna però notare che se il pensatore castigliano rivendica in più occasioni l’indipendenza della propria filosofia da quella di Heidegger, una simile rivendicazione può aver senso solo nella misura in cui abbia riscontrato delle effettive analogie tra le rispettive opere. In effetti, Ortega ritiene senz’altro giusto affrontare la questione dell’essere, ma non pensa che Heidegger lo abbia fatto con quel radicalismo che era necessario. In Essere e Tempo, a suo avviso, in fondo non si fa altro che distinguere diversi sensi dell’essere stesso, indagando varie classi di enti e differenziandole da quell’ente unico che ò il “Dasein”, senza tuttavia porsi l’unica domanda radicale che ci si poteva porre in proposito, ovvero cosa voglia dire l’interrogarsi su “che cosa ò qualcosa” prima di sapere a quale classe di enti questo qualcosa appartenga. Non essendosi posto questa semplice domanda – che non parte dal “chi” s’interroga, ma dall’essere stesso dell’ente interrogato prescindendo dalle qualità  che ne fanno un tipo particolare di ente – Heidegger avrebbe finito col girarle intorno gonfiando il concetto di essere, ed estendendolo “a ogni ultimità  sulla quale l’uomo si interroga, risultando che l’uomo stesso ò domanda dell’essere se per essere si intende tutto quello di ultimativo sul quale l’uomo si interroga” (Fi, 261). In pratica, secondo l’Heidegger di Ortega, l’uomo sarebbe, in quanto Esserci, quell’ente particolare che si interroga sul senso dell’Essere come senso ultimativo, e pertanto l’Essere risulterebbe comprensibile solo a partire da tale interrogazione dell’Esserci; ma in questo modo l’essere dell’Esserci stesso finisce col costituire a sua volta il soggetto di tale domandare, che quindi non farebbe altro che interrogarsi su sè stesso. In questa disamina orteghiana credo si possa scorgere quel rimprovero di soggettivismo o idealismo mascherato che già  abbiamo visto costituire uno dei momenti salienti della critica sia di Calogero che di Adorno, soggettivismo che, sebbene celato da un circolo vizioso, a sua volta camuffato abilmente in “un gioco di parole”, finirà  col condurre Heidegger in “un vicolo cieco”, consentendo allo stesso Ortega di prevedere con largo anticipo il mancato completamento di Essere e Tempo (Fi, 261). Sebbene imputi alla filosofia heideggeriana di essere un po’ troppo “melodrammatica”, fino a paragonarla ad una sorta di “meditatio mortis” (Sa, 131-132), e interpreti la pretesa di Heidegger di prendere le distanze dall’esistenzialismo in generale come l’effetto di un tipico “snobismo intellettuale” (Fe, 165, nota), Ortega considera comunque Heidegger come “uno dei più grandi filosofi mai esistiti” (Fi, 262) e giudica quella che era a suo avviso l’intuizione fondamentale di Essere e Tempo – ovvero il ritenere la vita come un compito, come un “aliquid faciendum” – sostanzialmente affine al suo modo d’intendere la vita nell’ambito della propria filosofia. Tra tutte le riserve avanzate da Ortega, quella che imputa ad Heidegger di proporre dei giochi di parole per mascherare dei circoli viziosi mi pare invece la più pertinente, anche perchè – oltre a costituire il momento comune con l’analisi svolta da Adorno rispetto al “gergo heideggeriano”, analisi che tuttavia procede del resto in modo tutt’affatto indipendente – una simile obiezione ò già  presa anticipatamente in esame dallo stesso Heidegger in Essere e Tempo. Nel secondo paragrafo infatti Heidegger scrive che l’elaborazione del problema dell’essere significa: “render trasparente un ente (il cercante) nel suo essere. La posizione di questo problema, in quanto modo di essere di un ente, ò anche determinata in linea essenziale da ciò a proposito di cui in esso si cerca: dall’essere. Questo ente, che noi stessi sempre siamo e che fra l’altro ha quella possibilità  d’essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci (Dasein). La posizione esplicita e trasparente del problema del senso dell’essere richiede l’adeguata esposizione di un ente (l’Esserci) nei riguardi del suo essere. Ma un’impresa del genere non incorre in un evidente circolo vizioso? Che cos’ò se non un muoversi in un circolo vizioso determinare un ente nel suo essere e poi pretendere di impostare su tale determinazione il problema dell’essere? L’elaborazione del problema non assume già  come ‘presupposto’ ciò che solo la soluzione del problema ò in grado di apportare? Le obiezioni formali, come quella del ‘circolo vizioso nella dimostrazione’, sempre facile a sollevarsi a carico d’indagini sui principi, sono sempre sterili in sede di riflessione sui procedimenti concreti della ricerca. Esse non hanno alcun peso nella comprensione delle cose e impediscono il progresso dell’indagine. Ma in effetti, nell’impostazione del problema da noi discusso, non ha luogo alcun circolo vizioso. Un ente può esser determinato nel suo essere senza che debba per ciò stesso esser già  disponibile il concetto esplicito del senso dell’essere. Se così non fosse, non si darebbe ancora fino ad oggi alcuna conoscenza ontologica, mentre la sussistenza di essa ò ben difficilmente negabile. L’essere ò senz’altro presupposto da tutte le ontologie finora esistite: ma non come concetto disponibile, non come ciò di cui si va alla ricerca. La ‘presupposizione’ dell’essere ha il carattere di un colpo d’occhio preliminare sull’essere, in modo che, in base a questa prima ispezione, l’ente in esame venga provvisoriamente articolato nel suo essere. Questo colpo d’occhio direttivo sull’essere nasce da quella comprensione media dell’essere in cui già  da sempre ci muoviamo e che, alla fine, appartiene alla costituzione essenziale dell’Esserci. Un ‘presupporre’ del genere non ha nulla a che fare con l’assunzione di un principio da cui si ricavano deduttivamente delle conseguenze. Nell’impostazione del problema del senso dell’essere non può aver luogo alcun ‘circolo vizioso’, perchè la risposta a questo problema non ha il carattere di una fondazione per deduzione, ma quello di una ostensione che fa vedere il fondamento. Nel problema del senso dell’essere non ha luogo alcun ‘circolo vizioso’, bensì un singolare ‘stato di retro – o pre-riferimento del cercato (l’essere) al cercare quale modo di essere di un ente. L’influenza essenziale che il cercare subisce dal suo cercato fa parte del senso più proprio del problema dell’essere. Ma ciò significa soltanto che l’ente che ha il carattere dell’Esserci ha un rapporto col problema dell’essere stesso, rapporto che forse ò anche del tutto particolare. Ma con ciò non abbiamo già  dimostrato il primato ontologico di un ente e presentato l’ente esemplare che deve fungere da interrogato primario nel problema dell’essere? Le discussioni che abbiamo fatto finora non hanno nè dimostrato il primato dell’esserci nè deciso a proposito della sua funzione possibile o anche necessaria di interrogando primario. Tuttavia si ò annunciato qualcosa come un primato dell’Esserci” (Et, 23-24). Alla luce di questo lungo passo si può ritenere che il problema del “circolo vizioso” che viene sollevato da Ortega sia anche per Heidegger un problema che può, rispetto alla sua impostazione della tematica dell’essere, sorgere in maniera spontanea; e sebbene, stando alla sua risposta, non si tratti di un vero circolo vizioso, l’assunzione dell’Esserci come luogo privilegiato da cui porre il problema dell’essere pare sia destinato, fin da queste pagine, a condizionare in maniera determinate tutta l’analisi successiva. Ma per quale motivo secondo Heidegger l’obiezione virtuale di cadere in un circolo vizioso non sarebbe un’obiezione pertinente? Essenzialmente, pare di capire, perchè non siamo di fronte ad una fondazione di tipo deduttivo, ovvero non siamo di fronte ad una fondazione analoga a quella propria della geometria euclidea, dell’Etica spinoziana o anche della stessa prova ontologica di S. Anselmo e Cartesio. Qui non verrebbe presupposto nelle premesse ciò che poi si troverebbe nella conclusione, ma piuttosto il cercato (l’Essere) verrebbe indagato a partire da una sua modalità  particolare e accertata solo in via preliminare e provvisoria, ovvero a partire da quell’ente particolare che ò l’Esserci, e che ò particolare proprio in quanto si interroga sul senso dell’essere. In effetti, sebbene non siamo di fronte ad un circolo vizioso deduttivo, potremmo chiederci tuttavia se la risposta di Heidegger possa sanare l’obiezione avanzata da Ortega. Il fatto che un concetto, per quanto in sospeso possa essere, venga utilizzato (come “cercato”) per chiarirne un altro (L’Esserci) che a sua volta s’interroga sul senso dell’essere che gli coappartiene, sebbene non sia un circolo vizioso di tipo deduttivo, potrebbe essere considerato un circolo vizioso definitorio, che pur potendo rivelarsi utile al fine di chiarire il mutuo rapporto dei concetti che si vogliono definire, rischia di trasformare tutta l’impostazione e lo sviluppo del problema in esame in una rete di rimandi reciprochi, la quale, a sua volta, sarebbe poi facilmente scambiabile per una struttura di tipo argomentativo. In questo caso, sia le obiezioni di Adorno che quelle di Ortega resterebbero insoddisfatte, in quanto la circolarità  definitoria permette, nello sviluppo della riflessione, di dar vita ad architetture teoretiche che hanno tuttavia la pretesa di dimostrare qualcosa e che si reggono pur sempre sulla circolarità  definitoria proposta in sede preliminare. E’ quanto sostiene lo stesso Heidegger quando, verso la fine del brano citato, precisa che, fino a quel momento, non ò stato dimostrato il primato dell’Esserci, ammettendo tuttavia che esso ò stato annunciato, e sottintendendo che esso verrà  in seguito dimostrato. Ora, ò evidente che per dimostrazione egli non intende qui quel tipo di ragionamento che procede per via deduttiva: Essere e tempo non ha certo la struttura dimostrativa de “l’Etica” spinoziana, nè potrebbe averla. Ma allora, a quale altro tipo di dimostrazione può riferirsi se non a quella struttura definitoria suscettibile di sviluppo che ò già  preannunciata fin dal suo primo elemento fondamentale, ovvero fin dall’iniziale inerenza e coappartenenza reciproca dell’Esserci e dell’essere, del “cercante” e del “cercato”? In qualsiasi disciplina scientifica, ma anche da buona parte della tradizione filosofica classica, una definizione che comporti un riferimento al soggetto all’interno del predicato sarebbe ritenuta quantomeno scorretta. Il dire per esempio che un certo concetto, o ente X, ò definibile come il rapporto che sussiste tra tale ente X e tal altro ente Y introduce inevitabilmente in un circolo vizioso, giacchè ò evidente che l’X “definiendum” non può essere usato nello stesso modo dell’X “definiens”. In questo caso, infatti, si sarebbe potuto semplicemente sostenere che una caratteristica fondamentale di X consiste nel il suo modo di rapportarsi ad Y (ovvero, per esempio, che una caratteristica essenziale dell’essere umano ò l’interrogarsi sul senso dell’essere in generale alla luce del senso del proprio essere; l’essere essenzialmente sospeso al senso e all’esito di tale domanda), cosa che ò esattamente quanto Heidegger si guarda bene dal fare per evitare di ricadere di nuovo in una dimensione ontico-esistentiva di tipo soggettivistico, che tra l’altro avrebbe reso superfluo e ridondante il suo gergo. Proprio per questo, una simile “viziosità ” definitoria, che caratterizza il nuovo soggetto “Esserci”, ò cosa ben diversa dal “circolo ermeneutico”. Nella storia della filosofia e della cultura questo era già  attivo molto prima dell’opera heideggeriana e della sua successiva “urbanizzazione”. Esso non dovrebbe secondo Heidegger “essere degradato a circolo vizioso e neppure ritenuto un inconveniente ineliminabile”, poichè in esso si nasconderebbe “la qualità  positiva del conoscere più originario”; ma in definitiva, nonostante queste avvertenze, rimane piuttosto arduo distinguere una forma di circolarità  feconda da una viziosa. Il problema concerne semmai, più che la viziosità  o meno di tale struttura circolare, che secondo Heidegger si fonda sulla stessa struttura del “Dasein” (Et, 194-195), il modo in cui essa opera, e a questo riguardo pare improbabile che prima dell’avvento del “Dasein” non sia mai stata attiva in maniera feconda per la conoscenza, anche se forse non per la più “originaria”. Una tale struttura circolare infatti non ò ricavabile solo da “Dasein”, ma anche dalla vecchia nozione di autocoscienza una volta che se ne sia messo in luce il carattere di apertura e di sospensione rispetto al senso del proprio essere che la contraddistinguono. Lo stesso “circolo ermeneutico” può essere infatti legittimamente attribuito ad ogni soggetto umano in qualità  “d’interprete di sè stesso”, non essendo affatto necessaria alla sua introduzione tematica nè all’analisi fenomenologica della sua attività  la fondazione di un nuovo tipo di sostanza, nemmeno quando questa serva ad identificare “l’ente per cui, in quanto esser-nel- mondo, ne va del suo essere stesso”. E’ anzi chiaro che per ogni essere umano, in quanto inevitabilmente “interprete di sè stesso”, vale ciò che Heidegger sostiene dell’Esserci, e cioò che “ha un rapporto con l’Essere per cui ne va del proprio essere”; ma proprio per il fatto che questa caratteristica essenziale può essere predicata di ciascun essere umano non ò necessario costruire una nuova entità  idonea a veicolare un tale requisito, nè coniare per essa un nuovo termine per il solo motivo che questo sarebbe portatore di quella differenza ontologica di cui recherebbe le tracce gia nella semantica del suo etimo.

  • Filosofia del 1900

Ti potrebbe interessare

Link copiato negli appunti