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Paradiso: XVIII Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Beatrice esorta Dante a distogliere la sua mente dal doloroso pensiero

dell’esilio e a riporre ogni speranza nella giustizia divina: la bellezza di Beatrice e l’affetto che dimostra verso di lui

sono tali che il Poeta prova un dolce smarrimento. Poi la sua donna lo invita a rivolgere l’attenzione ancora a Cacciaguida, il

quale gli presenta alcune fra le anime più famose del cielo di Marte: Giosuè e Giuda Maccabeo, Carlo Magno e il paladino

Orlando, Guglielmo d’Orange e lo scudiero Renoardo, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo. Dopo che Cacciaguida ha

ripreso il suo posto nella croce luminosa di Marte, Dante e Beatrice ascendono al sesto cielo, quello di Giove. Le anime di

coloro che nel mondo perseguirono in sommo grado la giustizia, disponendosi nella forma di lettere alfabetiche, scrivono nel

cielo la frase: “Diligite iustitiam qui iudicatis terram”. In seguito altri spiriti luminosi scendono a disporsi nell’ultima M

della scritta e la lettera, a poco a poco, si trasforma, assumendo la figura dell’aquila, simbolo dell’Impero al quale è

affidata l’amministrazione della giustizia in terra. Il canto termina con una dura invettiva di Dante contro la cupidigia degli

uomini di Chiesa, che con il loro comportamento offendono gravemente la giustizia, dimenticando la semplicità e la povertà

predicate dal Vangelo.


Introduzione critica

Dopo la trilogia di Cacciaguida il canto XVIII

apre quella del cielo di Giove, accentrata intorno al tema della giustizia. Sono questi i canti che certa critica considera

esempi cospicui della composizione a nuclei o a strati della Commedia, come già avvenne per la Vita Nova. Tuttavia tali nuclei,

anche se sviluppano motivi, personaggi, fatti per più canti in una “progressione logica e sentimentale che gradua e arricchisce

la vicenda” (Vallone), non possono, a differenza di quanto accade nell’opera giovanile, essere considerati a sé, poiché è

sempre accorgimento di Dante – accorgimento, nota ancora il Vallone, che nasce dalla logica stessa del poeta che compone – ”

sciogliere le angolazioni dei canti a chiusura e ad inizio” e “predisporre un motivo lungo tutto l’arco del canto… che serva

poi di avvio o di aggancio al canto o al nucleo dei canti che seguono”. Nel nostro caso l’aggancio fra questo canto e quelli

che lo precedono è offerto da due motivi: il tono largamente umano e personale dei primi versi (1-8) subito proiettato in un

piano metafisico (versi 9-18) – così come nei canti precedenti il destino individuale di Dante diventava il modello di una

vicenda collettiva, di un dramma storico generale – e il ruolo di protagonista assunto ancora una volta da Cacciaguida, che

prosegue, nella rassegna delle anime dei forti, l’alta eloquenza e il fortissimo slancio spirituale dei suoi discorsi

precedenti. La lettura a nuclei, inoltre, presenta il grosso rischio di isolare il motivo o il personaggio o il fatto

rappresentati, perdendo di vista l’unità lirico-narrativa dell’opera. Analizziamo i tre canti di Giove: la considerazione

sdegnata o dolente di Dante per certe vicende terrene rappresentate in essi nulla toglie alla sua grande e insistente certezza:

che il mondo della trascendenza sia opposto al contingente solo nella misura scandita dal peccato. Ma poiché il peccato è stato

redento dal Cristo, sussiste una positiva colleganza fra il divino e l’umano, simboleggiata in questi tre canti dal motivo

centrale della giustizia umana procedente da quella divina. Proprio nell’ansia della realizzazione di un’unità, il più

possibile perfetta, fra terra e cielo è il profondo “centro ” poetico da cui nasce la unità di tutto il poema. L’accordo

tematico e tonale dei canti dei giusti non esclude che all’interno di ciascuno di essi il Poeta si sia preoccupato di disporre

e graduare la sua materia. La lettura del canto XVIII non tarda a scoprirne l’estrema, inesausta mobilità espressiva, la quale

fa sì che la voce del Poeta trasformi e plasmi la temperie del canto, passando da climi di assorta e meditativa contemplazione

agli attimi del più acceso rapimento dell’intelletto e, subito dopo, alle più crude tonalità scaturite da una sferzante,

disincantata visione delle cose terrene. Tornano, infatti, con insistenza, alcuni fra i motivi più alti dell’ispirazione che

accende tutto il Paradiso: un misticismo che giunge al “dismagarsi” del Poeta di fronte a visioni di sovrumana dolcezza (versi

13-18), un’ardente luminosità che pervade ogni cosa, penetrando e rischiarando, attraverso la vista, l’intelletto e lo spirito

(versi 55-69); una costante preoccupazione per i problemi terreni che, alla fine del canto, si concreta nella feroce asprezza

della satira contro gli uomini di Chiesa (versi 118-136).

Un discorso a parte meriterebbe la minuta rappresentazione

delle anime che si dispongono nel segno dell’aquila secondo i canoni di una speciale forma di coreografia celeste. Il Barberi-

Squarotti giudica questa parte una “sezione di suprema maestria tecnico-figurativa e simbolica”. In essa “si avverte più

intenso il gusto dantesco per la difficoltà espressiva, per l’arduo impegno sulla materia difficile, mediante il servizio di

una tecnica d’eccezione, che riesce a sollevare la meccanicità descrittiva, l’aridità, anche, dei temi e delle ragioni della

figurazione, il suo ritmo complesso e non immediatamente distinguibile per l’accurata minuzia dei particolari, involti entro un

linguaggio estremamente allusivo… a una suggestione di lotta accanita con le difficoltà dell’assunto, con la parola e il

ritmo e la metrica”. L’unità della rappresentazione appare fondata proprio “sulla perspicuità esercitatissima della tecnica”,

di fronte a una materia eccezionale e oggettivamente difficile da descrivere. Due sono le fasi della rappresentazione: nella

prima (versi 76-81 e 88-96) appare “una chiarezza quasi matematica di organizzazione, razionalmente evidenziata: si noti l’

esattezza delle indicazioni temporali e spaziali (dentro, prima, un poco, poi, or… or), i parallelismi di costruzione

sintattica (cantando… diventando), la rispondenza accuratissima della similitudine degli uccelli con le anime beate (or

tonda, or altra schiera… or D, or I, or L)” (Barberi-Squarotti). La presenza del numero (versi 88-89) ribadisce il rigore

costruttivo, geometrico della descrizione, nella quale spicca, rileva lo stesso critico, “tanto più chiaramente quanto meno

vivida è l’intonazione poetica, il gusto tutto medievale per la chiarezza razionale della matematica come ordinamento perspicuo

e armonico delle cose” Nella seconda fase, quella delle celesti metamorfosi della M, la chiarezza e l’equilibrio descrittivi

vengono in parte meno, ma ne acquistano la suggestione delle immagini (si noti, ad esempio, la pioggia di luci che scende con

una direzione ben precisa e la similitudine dei ciocchi arsi) e la ricchezza fantastica con la quale il Poeta traduce in figure

un gioco di simboli densi di riposti significati.

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