Paradiso: XXIV Canto - Studentville

Paradiso: XXIV Canto

Riassunto e critica.

Riassunto

Alle anime che hanno accompagnato l’apparizione

di Cristo nel cielo delle stelle fisse, Beatrice chiede di rivelare a Dante una parte della sapienza divina che esse

possiedono. Poiché uno dei beati – San Pietro – è uscito dalla sua schiera per farsi incontro ai due pellegrini, Beatrice lo

prega di interrogare Dante intorno alla prima delle tre virtù teologali, la fede. Il Poeta inizia il difficile esame davanti al

principe degli apostoli rispondendo prima di tutto alla domanda: che cos’è la fede? Dopo aver richiesto alcuni chiarimenti

relativi alle risposte ricevute, San Pietro esorta Dante a dichiarare se egli possiede o meno la fede. Ottenuta una risposta

affermativa, il Santo interroga il Poeta intorno alle fonti dalle quali deriva la prima virtù teologale. Dopo che, concluso

positivamente l’esame, tutti i beati hanno innalzato il canto del ” Te Deum laudamus “, San Pietro esige da Dante una solenne

professione di fede, al termine della quale l’apostolo manifesta la propria soddisfazione circondando per tre volte il Poeta

con la sua luce e benedicendolo.

Introduzione critica

La presenza di una situazione d’esame

quale quella che si viene creando nei tre canti dedicati alle virtù teologali è determinata dalla struttura stessa della

Commedia, struttura che si configura come rapporto continuo e diretto fra maestro e discepolo: Dante-Virgilio, Dante-Beatrice,

Dante-Stazio (o Marco Lombardo o San Tommaso ecc.). Perciò parlare di “esame” a proposito di un canto della Commedia è parlare

di uno degli aspetti fondamentali di essa. Tuttavia in questi canti il Poeta ricorre addirittura all’interrogatorio e alla

risposta scolastica, costruendo un vero e proprio “ambiente” di esame, dove il maestro avanza le sue domande e le sue obiezioni

e il discepolo risponde e difende, controbattendo, le sue posizioni. Ciò significa che in questi canti l’io-personaggio di

Dante avanza in primo piano, polarizzando ogni attenzione. Se è vero che ogni artista considera la sua opera come realtà e che

in ciascuna opera si riflette appieno la personalità del suo autore, bisogna rilevare che con la Commedia ci troviamo di fronte

a un caso diverso, perché Dante non solo scrive il suo poema, ma ne è anche il personaggio protagonista, il quale si muove,

parla, discute e sente alla maniera di tutti gli altri personaggi che, derivati dal mondo del mito o della storia, immagina di

incontrare sul suo cammino. Tuttavia, nel Paradiso, Dante-personaggio appare sempre più come figura centrale, nella quale

convergono discorsi sentimenti, visioni, laddove nell’Inferno (in misura molto minore nel Purgatorio) la sua figura appariva

circondata e posta in antagonismo con quella degli altri protagonisti. Questa precisazione permette di rilevare una delle

caratteristiche dei canti XXIV, XXV, XXVI: la profonda immedesimazione di Dante nella visione e nella vita del mondo

paradisiaco, per cui egli diventa in questo momento l’unico attore responsabile (le figure dei tre apostoli appaiono generiche

e indeterminate: è il proprio personaggio, studiato in ogni suo atteggiamento e in ogni sua reazione psicologica, che interessa

al Poeta in questo momento; i tre grandi dignitari del regno celeste – la cui vita terrena, che li ha preparati a quella

dignità, non ha bisogno di una rappresentazione che dia loro una nuova forma – servono solo per impostare l’azione e il

dialogo, dei quali è centro il personaggio Dante). Sbaglierebbe però chi cercasse nel canto XXIV (o nei due immediatamente

seguenti) una lirica pura, una confessione abbandonata dell’animo che ripercorre le tappe della sua vicenda religiosa, perché

la solennità dell’ambiente circostante (sono presenti tutte le schiere del trionfo di Cristo), l’alto grado nella gerarchia

celeste dell’interlocutore, San Pietro, il rigore filosofico della dissertazione, il “Te Deum laudamus” cantato dalle anime

alla fine dell’esame, la triplice incoronazione di Dante da parte dell’apostolo alla conclusione della professione di fede,

sono elementi non solo che concorrono ad accentuare l’importanza di questo momento nell’economia generale della cantica, ma

anche a consacrarne il significato universale. La corte celeste non si è riunita solo per ascoltare Dante e il principe degli

apostoli non ha lasciato la sua schiera solo per interrogare Dante, ma per ascoltarlo e interrogarlo come simbolo di tutta la

umanità redenta prima che essa si accosti alla visione finale di Dio, e per imporgli, dopo aver ricordato che Scipione l’

Africano per volere della provvidenza difese a Roma la gloria del mondo, di riferire al mondo quanto egli ha lì udito e appreso

(canto XXVII, versi 61-66). Il compito di Dante non è destinato a cristallizzarsi allorché il pellegrino è giunto nell’alto dei

cieli, ma prosegue tornando dal cielo alla terra, dove la sua scienza e la sua poesia risuoneranno con parole umane, e tuttavia

piene di assolutezza divina; è una missione che lo pone “medium tra finito e infinito, maestro eroico della logica sublime che

insegna il termine assoluto d’ogni vicenda relativa” (Ramat).La lettura, in questa linea prospettica del canto XXIV, permette

di invalidare il giudizio critico del Croce, il quale ritiene di trovarsi di fronte a una scena “affatto umana”: un uomo

illustre, un gran dotto, bonariamente interroga un fanciullo su cose elementari. E bonariamente, e incoraggiando, San Pietro

comincia: di’, buon cristiano, fatti manifesto: fede che è?… E il fanciullo, alquanto timido, si rivolge verso colei che gli

è maestra, ed ella lo esorta col cenno del sembiante: perch’io spandessi l’acqua di fuor del mio interno fonte. Le risposte del

bravo ragazzo sono una per una approvate e lodate dall’esaminatore, che a ogni risposta fa seguire una nuova domanda, col

desiderio che quegli si faccia sempre più onore; mentre il candidato sale via via dalla timidezza alla sicurezza e dal

rispondere secondo la lezione appresa all’eloquenza entusiastica e personale: quest’è il principio, quest’è la favilla che si

dilata in fiamma poi vivace, e, come stella in cielo, in me scintilla. Al che… San Pietro, il buon esaminatore, ricinge Dante

tre volte del suo lume… e il candidato è tutto lieto, soddisfatto di sé: sì nel dir gli piacqui!” Inoltre con questo suo

giudizio il Croce contraddice quanto ha affermato a proposito del valore poetico dei canti di contenuto teologico: in essi la

sorgente della poesia sarebbe nel sentimento di gioia dell’insegnare e dell’apprendere, ” nel godimento di un’intima luce, meno

inebriante ma più calma e ferma di quella che lo avvolge e abbarbaglia” di fronte alle ultime visioni paradisiache. Il Getto,

tuttavia, ha superato tale posizione crociana, affermando che il carattere poetico di queste pagine del Paradiso è in uno stato

d’animo tutto particolare, che egli ha definito “gusto della teologia”: nell’interesse e nella passione con cui Dante si

accosta al destino divino dell’uomo, alla sua dignità sacra, alla garanzia di una immortalità vera, alla vita dello spirito.

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