Il 23 novembre 2025, durante il Forum Welfare Italia, il Ministero dell’Istruzione e del merito ha preso posizione a favore delle classi numerose, sostenendo che favoriscano risultati di apprendimento migliori rispetto a quelle con un numero contenuto di alunni. A supporto della tesi, il dicastero ha richiamato i dati delle prove Invalsi.
La scelta comunicativa è stata giudicata inopportuna e ha generato critiche da parte di esperti del settore scolastico. I dati Invalsi, secondo i critici, sono «sempre generali e sempre interpretabili in modo vario e perfino contrapposto», tanto da prestarsi a letture superficiali o finalizzate a sostenere una verità predeterminata.
Le obiezioni non hanno riguardato solo le conclusioni del Ministero, ma anche il metodo: l’uso di indicatori aggregati per sostenere una posizione netta su un tema complesso come la composizione delle classi.
Il contrasto tra la linea ministeriale e le riserve degli esperti mette in luce tensioni sul piano della comunicazione istituzionale e sulla gestione dei dati a fini di policy.
Le variabili che pesano sul rendimento: oltre il numero di studenti
L’articolo sottolinea che non esiste un numero perfetto di alunni per classe valido in modo assoluto. Contesti differenti producono risultati diversi: in alcune realtà funzionano meglio classi numerose, in altre quelle più piccole.
I fattori in gioco sono molteplici e spesso contrapposti. A grandi linee, secondo quanto riportato, una fascia tra 16 e 20 allievi rappresenta un numero adeguato, mentre 23-24 costituisce il limite massimo operativo. Questo limite viene però spesso superato nelle scuole medie e nel biennio delle superiori.
Un elemento che contribuisce a mantenere numeri elevati fino alla fine del percorso è la crescente difficoltà di non ammettere studenti non meritevoli. Tale tendenza si aggiunge agli altri fattori che rendono la composizione delle classi un tema complesso da gestire.
La gestione della didattica: personalizzazione, sostegno e classi eterogenee
In gruppi-classe contenuti, tra 16 e 20 studenti, un docente ha maggiori opportunità di conoscere ogni allievo, comprenderne caratteristiche e predisposizioni, e attivare percorsi di apprendimento differenziati. Questa dimensione ridotta consente di dedicare tempo e attenzione agli studenti fragili, aiutandoli a superare debolezze e incertezze, riducendo al contempo la necessità di insegnanti di sostegno, salvo nei casi di disabilità certificate.
Nelle classi numerose ed eterogenee, invece, l’attuale fase della scuola – caratterizzata da un numero crescente di fragilità riconosciute – richiede la presenza di più docenti di sostegno a fianco dell’insegnante di cattedra. Questi colleghi affiancano gli alunni in difficoltà durante le lezioni, li supportano nello svolgimento dei compiti e li preparano per interrogazioni programmate su argomenti concordati.
Quando il livello di disomogeneità diventa troppo elevato, i docenti di sostegno conducono i propri allievi in aule separate per seguire la lezione su una specifica materia, creando di fatto “piccole classi differenziate” temporanee. Alcuni sondaggi qualificati citati nell’articolo indicano che diversi professori vedrebbero favorevolmente un ritorno a classi differenziate o parzialmente differenziate, segnalando un disagio operativo rispetto all’attuale configurazione inclusiva.
Le ricadute di policy: inclusione, risorse e percezione pubblica
Il Ministero ha annunciato una strategia basata sulla trasformazione dei docenti di sostegno in «professori dell’inclusione», attraverso percorsi formativi dedicati. L’obiettivo dichiarato è rafforzare la capacità delle scuole di gestire classi numerose garantendo supporto personalizzato.
Sul fronte delle risorse, il dicastero ha rivendicato investimenti significativi già stanziati e ha promesso ulteriori impegni futuri.
Secondo l’analisi critica dell’articolo, però, dietro questa impostazione emergerebbero due priorità di fondo: propaganda e contenimento della spesa. I tagli alla scuola verrebbero mascherati o giustificati con il calo demografico, mentre la retorica sugli investimenti servirebbe a veicolare consenso.
L’autore sottolinea che l’era della «Post-Verità mediatica» permette di presentare scelte di risparmio come progetti razionali e ben calibrati, spostando l’attenzione dal contenuto reale delle decisioni al loro confezionamento comunicativo.