Fascismo: ideologia, origini e dittatura di Mussolini - StudentVille

Fascismo

Storia del Fascismo, dalle origini fino alla fucilazione di Mussolini.

Il Fascismo è un movimento politico fondato in Italia da Benito Mussolini il 23 marzo 1919. Nacque come risposta alla grave crisi economica e politica che caratterizzò il paese dopo la fine dalla prima guerra mondiale, esaltando il dominio della forza ed il drastico annullamento della volontà individuale per un completo sacrificio, per la volontà del capo, per il bene della patria.

Il contesto

La guerra si concluse per l’Italia con la vittoria, ma quando si trattò di trarne le conclusioni al tavolo della pace, le grandi potenze non accettarono le richieste italiane. Nacque il mito, di cui subito si impadronì l’estrema destra, della “vittoria mutilata“. La smobilitazione, con il ritorno dei soldati alla vita civile, ripropose i grandi problemi strutturali nella società italiana, aggravati dalle conseguenze della guerra: gli squilibri, la miseria, l’iniquità del sistema tributario. Il governo promise ai combattenti riforme sociali e distribuzione di terre; ma la realtà che si presentò ai loro occhi era quella di sempre, con in più lo spettro della crisi economica e dell’inflazione.

Nel luglio del 1919 si svilupparono dei moti popolari contro il carovita. Mutò il quadro politico con le elezioni del ’19 (sistema proporzionale); nacque il PPI (Partito Popolare italiano) che ottenne 101 seggi, ma un’altra formazione si affacciò alla ribalta per la prima volta: il Partito fascista.

Una dittatura moderna

I ventuno anni della dittatura di Benito Mussolini inaugurarono l’epoca della cosiddette “dittature moderne”: autoritarie e nemiche della libertà, ma con ampio seguito popolare. Il popolo avrebbe dovuto partecipare alle sue iniziative e condividerne i valori, possibilmente con entusiasmo. Il consenso di un’ampia parte della popolazione fu ritenuto necessario, soprattutto nella fase in cui il Fascismo aspirava a diventare la forza guida del paese. Per fare questo non poté servirsi soltanto della forza e della minaccia violenta, perché non sarebbe stato accettato da milioni di persone che, fra l’altro, cominciarono a votare in massa e democraticamente per scegliersi i propri governanti. Il Fascismo capì, quindi, di dover convincere il maggior numero di individui possibile, usando argomenti più o meno veri, ma di sicuro effetto; il consenso venne cercato e sollecitato con la propaganda. Mussolini capì l’importanza dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, come la radio, i giornali, il cinema e li utilizza ampiamente. Egli venne fotografato e ripreso dappertutto e fu presente a qualsiasi manifestazione.

La “rivoluzione fascista”

Il Fascismo si presentò inizialmente come un movimento politico rivoluzionario. Garantì grandi cambiamenti sociali ed economici, giustizia sociale, ordine, governi efficienti, riforme a favore della maggioranza del popolo. La “rivoluzione fascista” italiana ebbe caratteri assolutamente originali. Le ragioni del seguito di massa, che il Fascismo riuscì ad ottenere, sono da ricercare innanzitutto nei mutamenti maturati nella società italiana durante la guerra, nell’attivismo dei suoi capi, nella capacità di porsi alla testa degli strati emergenti della piccola borghesia provinciale. Proprio per il suo seguito di massa il Fascismo si differenziò nettamente dai movimenti autoritari e antidemocratici tradizionali.

Ma dopo il 1925, a soli tre anni dalla sua ascesa legale al potere, rivelò il suo vero volto di regime autoritario e conservatore, di dittatura poliziesca tutta costruita intorno al capo, Benito Mussolini.

Benito Mussolini

Benito Mussolini nacque a Dovia di Predappio, in provincia di Forlì nel 1883. Iscrittosi al Partito Socialista Italiano sin dal 1900, mostrò subito un acceso interesse per la politica attiva. Emigrato in Svizzera nel 1902 per sottrarsi al servizio militare, entrò in rapporto con importanti personaggi del socialismo europeo e pose contemporaneamente le basi della propria cultura politica, in cui si mescolavano contraddittoriamente gli influssi di Marx, Proudhon e Blanqui insieme a quelli di Nietzsche e Pareto. Rientrò in Italia nel 1904. Protagonista del congresso di Reggio nell’Emilia, assunta la direzione dell’Avanti! alla fine del 1912, Mussolini diventò l’ascoltato portavoce di tutte le insoddisfazioni e le frustrazioni di una società caduta in una crisi economica e ideale, trascinando masse sempre più vaste verso esplosioni insurrezionali senza chiare prospettive, che culminarono nella “settimana rossa” del giugno 1914. Lo scoppio del conflitto mondiale trovò il direttore dell’Avanti! allineato sulle posizioni ufficiali del partito, di radicale neutralismo. Nel giro di qualche mese, tuttavia, in M. maturò il convincimento – comune ad altri settori dell'”estremismo” di sinistra – che l’opposizione alla guerra avrebbe finito per trascinare il P.S.I. a un ruolo sterile e marginale, mentre sarebbe stato opportuno sfruttare l’occasione offerta da questo sconvolgimento internazionale per far percorrere alle masse quella via verso il rinnovamento rivoluzionario dimostratasi altrimenti impossibile.

Mussolini pensò così di realizzare un suo quotidiano. Il 15 novembre pertanto pubblicò “Il popolo d’Italia“, ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell’Intesa e in grado di conseguire immediatamente un clamoroso successo di vendite. Espulso di conseguenza dal P.S.I. Mussolini poté ritornare alla direzione del suo giornale, dalle colonne del quale ruppe gli ultimi legami ideologici con l’originaria matrice socialista, in nome di un superamento dei tradizionali antagonismi di classe, prospettando l’attuazione di una società produttivistico-capitalistica capace di soddisfare le legittime aspirazioni economiche di tutti i ceti.

La fondazione dei fasci di combattimento avvenuta a Milano il 23 marzo 1919, benché si basasse su un ambiguo programma mescolante in modo spregiudicato istanze radicali di sinistra e fermenti di acceso nazionalismo, non ebbe inizialmente successo. Tuttavia, man mano che la situazione italiana si andava deteriorando e il fascismo si caratterizzava come forza organizzata in funzione antisocialista e antisindacale, Mussolini otteneva crescenti adesioni e favori da agrari e industriali e quindi dai ceti medi.

Ottenuto l’incarico di formare un governo dopo la cosiddetta “marcia su Roma” dell’ottobre 1922, costituì un gabinetto di larga coalizione. Consolidato ulteriormente il potere dopo le elezioni del 1924, Mussolini fu messo per un momento in grave difficoltà dall’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti. Mussolini seppe conservare e accrescere la sua popolarità sfruttando abilmente alcune iniziative genericamente populistiche e successi di rilievo come la cosiddetta questione romana e realizzando attraverso i Patti Lateranensi del 1929 la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede.

Un’incessante e soffocante propaganda cominciò così a esaltare in maniera spesso grottesca le doti di “genio” del “duce supremo” (il titolo dux fu attribuito a M. dopo la marcia su Roma), trasfigurandone la personalità in una sorta di semidio “insonne” che aveva “sempre ragione” ed era l’unico in grado di interpretare i destini della patria.

Nel 1936 volle l’annessione dell’Etiopia e nel 1940 scelse di entrare in guerra benché impreparato. Ottenne solo insuccessi che ridiedero spazio a tutte le energie contrarie al Fascismo precedentemente represse: fino a che, dopo l’invasione anglo-americana della Sicilia e il suo ultimo colloquio con Hitler (19 luglio 1943), fu sconfessato da un voto del Gran Consiglio (24 luglio) e fatto arrestare dal re Vittorio Emanuele III (25 luglio).

Trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso, il 12 settembre fu liberato dai tedeschi. Proclamò quindi la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano e si insediò a Salò, capitale della nuova Repubblica Sociale Italiana (fondata il 23 settembre 1943), inutilmente cercando di far rivivere le parole d’ordine del Fascismo. Travestito da militare tedesco, tentò allora, insieme alla compagna Claretta Petacci, la fuga verso la Valtellina. Riconosciuto a Dongo dai partigiani, fu arrestato e il 28 aprile 1945 giustiziato per ordine del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) presso Giulino di Mezzegra.

L’avvento al potere

II movimento mussoliniano raccoglieva gli elementi più disparati, conservatori, socialisti, anarchici, ex-arditi di guerra e studenti, sotto il comune denominatore del nazionalismo e del dispregio del Parlamento, e voleva imporre con la forza la propria volontà riguardo ai problemi del momento. Già nel 1915 Mussolini aveva fondato i Fasci d’azione rivoluzionaria, con scopi puramente interventisti nella guerra europea, risposta immediata e risoluta al neutralismo socialista. Sulla stessa linea politica fondò a Milano, il 23 marzo 1919, i Fasci italiani di combattimento. Fu questo il primo passo di un movimento che si trasformò in Partito Nazionale Fascista e che conquistò il potere.

La prima elaborazione programmatica del movimento era oltremodo radicale: postulava una nuova Costituzione, l’adozione di imposte progressive sui maggiori redditi, profonde riforme sociali e persino una sorta d’incameramento graduale dei patrimoni ereditari da parte dello Stato. Facendosi forte dei suoi precedenti rivoluzionari, Mussolini disputava ai socialisti il favore delle masse lavoratrici e sosteneva a spada tratta l’occupazione delle fabbriche. Non riuscì tuttavia ad accattivarsi le masse e dalle elezioni di autunno (16 novembre 1919) il fascismo uscì sconfitto, mentre trionfava il partito socialista, seguito da quello ” popolare “, un partito cattolico a carattere operaio di recente costituito da Don Luigi Sturzo. Ma i vincitori non seppero valersi accortamente del successo e la situazione cambiò di molto dopo le agitazioni del 1920, perché Mussolini seppe manovrare abilmente e trasformare il fascismo in un movimento di massa. Mussolini oltre a interpretare gli ideali patriottici della piccola borghesia, capì che la debolezza della classe dirigente, incapace di stabilizzare la situazione economica e sociale, si poteva vincere solo conquistando i favori dei gruppi dominanti del padronato industriale e dei proprietari terrieri, sempre più intolleranti verso le manifestazioni popolari e pronti ad appoggiare chiunque fosse disposto a usare la “mano forte”.

Il fascismo rifiutava ogni forma di lotta fra le classi e faceva appello al principio della superiore “unità nazionale“, intesa come un organismo vivente cui dovevano essere subordinati tutti gli interessi particolaristici. Parve quindi, inizialmente, fornire un’efficace alternativa tanto alla debolezza di una classe politica dilaniata da insanabili contrasti interni, che mettevano capo a continue crisi di governo, quanto alle velleità rivoluzionarie dei socialisti. Ma proprio l’esaltazione di un ipotetico primato nazionale, da raggiungere non più nel segno della politica liberale, che aveva caratterizzato tutto il periodo del Risorgimento e la storia post-unitaria, ma attraverso un esplicito rifiuto degli ideali democratici e una vigorosa difesa della “disuguaglianza irrimediabile e benefica degli uomini”, accentuò il ricorso ai metodi della violenza fisica, con l’intervento delle squadre d’azione.

Dal 1920 al 1922 il fascismo mutò completamente tono. Scomparsi tutti i punti radicali e rivoluzionari del programma originario (del quale fu persino proibita la pubblicazione), non rimasero che il nazionalismo: la glorificazione della forza e del Capo. II fascismo criticò aspramente il movimento operaio, la teoria della lotta di classe e in parte anche il liberalismo parlamentare. Quest’offensiva provocò vivaci scontri, talora con veri aspetti di guerra civile, tra le squadre fasciste e le organizzazioni operaie. L’alta industria aveva quindi trovato nel fascismo la forza da opporre alle rivendicazioni operaie, agli scioperi, alle durezze della lotta sociale che raggiunse il vertice con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.

Il fascismo divenne lo strumento della reazione e sviluppò massicci attacchi contro gli avversari, con spedizioni punitive, incendi, devastazioni, assassini, soprattutto nei confronti dei socialisti e dei cattolici-popolari. Quest’offensiva provocò vivaci scontri, talora con veri aspetti di guerra civile, tra le squadre fasciste e le organizzazioni operaie. L’alta industria aveva quindi trovato nel fascismo la forza da opporre alle rivendicazioni operaie, agli scioperi, alle durezze della lotta sociale che raggiunse il vertice con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.

Intanto il movimento fascista, divenuto partito (novembre 1921), cercò di darsi una dottrina e, poiché il grande momento per i socialisti era passato, Mussolini, prima di puntare concretamente al potere, tentò la politica delle alleanze. Entrò, per le elezioni del 1921, nei blocchi nazionali giolittiani, ottenne un primo successo mandando alla camera 35 deputati e cercò l’alleanza con i socialisti e i popolari. Era l’equivoco di una grande coalizione che portò al patto di pacificazione con i socialisti e rappresentò una parentesi brevissima, perché pochi mesi dopo riprendevano scontri, lotte, violenze e il fascismo nuovamente autonomo, si appoggiava ai liberali, convinti che il movimento di Mussolini avrebbe restituito a molti il senso dello Stato. E, infatti, Mussolini espose nella sua Dottrina del fascismo una concezione dello Stato che sembrava riallacciarsi al pensiero risorgimentale, ma in realtà il fascismo pretese di costruire uno Stato e una concezione volta solo ad affermare il primato del dominio e della forza.

Altrettanto deboli si rivelarono i governi succedutisi dopo la caduta di Giolitti (Bonomi e Facta), cosicché, quando Mussolini decise di far marciare sulla capitale i propri squadristi (la cosiddetta “Marcia su Roma”, 27 ottobre 1922) non trovò praticamente ostacoli. II re rifiutò di firmare lo stato d’assedio debolmente patrocinato dal Facta e la sera del 28 ottobre 1922 convocò a Roma Mussolini, affidandogli l’incarico di formare il nuovo governo.

I motivi che portarono all’ascesa del fascismo

In meno di tre anni il fascismo divenne la più importante forza politica. I motivi principali di una così rapida affermazione furono:

1. La classe dirigente, erede dello Stato liberale post-risorgimentale, aveva voluto spingere l’Italia nel conflitto, senza prevedere le gravissime perdite umane e materiali che ne sarebbero derivate. Così, dopo la fine vittoriosa, si era trovata improvvisamente costretta a dover fronteggiare una situazione difficilissima, ricca di tensioni e contrasti interni, dove gli interessi dei gruppi economico-sociali privilegiati si scontravano con le aspirazioni della maggioranza della popolazione, fino allora tenuta ai margini della vita dello Stato.  Il ritorno alla “normalità” non aveva offerto a milioni di reduci la meritata ricompensa, dopo i lunghi anni di pericoli e sofferenze in trincea. Anzi, insieme al dissesto delle finanze pubbliche, che i responsabili al governo non riuscivano a sanare, l’aumento dei prezzi e il diffondersi della disoccupazione alimentavano le agitazioni popolari. In questo sconvolgimento sociale, dove l’inefficienza economica stimolò il rafforzamento dei partiti di massa, con una forte crescita dei socialisti, soprattutto fra gli operai, e un’affermazione del Partito Popolare fra i cattolici dell’ambiente contadino, nacque e si andò affermando il movimento fascista.

2. Crisi economica. Dall’economia di guerra si dovette tornare ad un’economia di pace: entrarono così in crisi l’industria e l’agricoltura che, producendo poco, obbligarono l’Italia ad indebitarsi per acquistare beni dall’estero. In seguito l’agricoltura iniziò a produrre troppo e i prezzi crollarono. Nell’uno e nell’altro caso, risultò una disoccupazione a livelli molto alti. Il fascismo si proponeva di risolvere questa grave crisi.

3. Crisi sociale. Insieme al crescente squilibrio fra Nord e Sud, esasperato dai contrasti interni fra ceti padronali e proletariato operaio e contadino, il passaggio dalla vecchia economia agricolo-artigianale alla grande industria capitalistica (specie nel “triangolo” Milano-Torino-Genova) tendeva ad accrescere il peso dei più forti gruppi imprenditoriali, ma nello stesso tempo portava alla ribalta il proletariato operaio, sminuendo il ruolo che i ceti medi avevano continuato a svolgere dal periodo post-risorgimentale fino agli anni giolittiani del primo Novecento. Per questo la conflittualità sociale era molto forte. I contadini, i braccianti agricoli, gli operai delle fabbriche inaugurarono un periodo di grandi proteste: scioperi, occupazione di terre e di fabbriche per chiedere un migliore trattamento e minori ingiustizie sociali, contro la crisi economica e la disoccupazione.

4. Crisi politico/istituzionale. La protesta sociale di contadini e operai s’incanalò politicamente verso il Partito socialista, ma anche verso il Partito Popolare. Anche la borghesia non si sentiva più garantita dalla democrazia parlamentare e dai vecchi governi liberali. Inoltre la crisi in cui si dibatteva il paese era aggravata dall’ingovernabilità determinatasi in seguito alla frantumazione delle forze politiche e parlamentari, alle loro divisioni, alle correnti interne che laceravano i partiti. I governi, infatti, nascevano deboli e impotenti ed erano in balia delle circostanze e degli umori del parlamento, tanto che in tre anni (dal 1919 al 1922) si ebbero ben quattro ministeri (presieduti rispettivamente da Nitti, Giolitti, Bonomi e Facta).

5. Il timore delle organizzazioni “rosse”: il fascismo si proponeva di fronteggiare i disordini, le violenze e gli errori promossi dai comunisti e dai capi delle organizzazioni operaie.

6. Il desiderio di “ordine” e di pacificazione. La borghesia industriale, il blocco politico conservatore costituito da proprietari terrieri, dall’esercito, dalla burocrazia statale e dalle forze clericali, videro nel fascismo e in generale nei regimi dittatoriali, una forza politica che poteva tutelare gli interessi collettivi e proteggere i propri privilegi.

Dalla fine dell’Ottocento in poi si andavano diffondendo quelle tendenze filosofiche e letterarie che rifiutavano il pensiero positivista e la razionalità scientifica in nome del sapere intuitivo e irrazionale, dell’individualismo estremo e del protagonismo intellettuale tipico dei nazionalisti. Alcuni filosofi idealisti, come Giovanni Gentile, dalla critica al Positivismo passarono al rifiuto del liberalismo, della democrazia, del parlamento, manifestando la più dura avversione nei confronti della società di massa, del socialismo, del movimento operaio. Di qui l’esaltazione per lo stato forte, imperialista e aggressivo.

La dittatura fascista

Il primo governo di Mussolini, formato da fascisti, da liberali, da popolari e da indipendenti, poté così ottenere una larga maggioranza alla Camera Ma la speranza di una rapida normalizzazione non si realizzò, mentre lo svuotamento delle istituzioni parlamentari e l’avvio verso un sistema dittatoriale cominciarono subito con l’inquadramento delle camicie nere nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, vero esercito di partito messo direttamente “agli ordini del capo del governo” e con la creazione del Gran Consiglio del fascismo. Le elezioni del 1924 furono un’altra tappa importante per il consolidamento del potere fascista. Una nuova legge elettorale, pressioni e corruzioni d’ogni genere davano nell’aprile 1924 i due terzi dei seggi alla ” lista nazionale” presentata dai fascisti.

Ciononostante, il 30 maggio il deputato socialista Giacomo Matteotti ebbe il coraggio di denunciare con un grande discorso alla Camera le violenze e i brogli commessi per carpire la vittoria; pochi giorni dopo veniva trovato in aperta campagna, assassinato da sicari delle camicie nere. L’omicidio sollevò nel Paese un’ondata d’indignazione e pose in immediato pericolo il nuovo regime, che riuscì in ogni caso a salvarsi, anche per l’errore dell’opposizione che giunse alla decisione di “ ritirarsi sull’Aventino “. I deputati antifascisti, infatti, ad eccezione dei comunisti, abbandonarono ogni iniziativa parlamentare e Mussolini poté così predisporre nel 1924-25 il virtuale colpo di Stato che instaurava la dittatura.

Tra il 1925 e il 1928 furono varate le leggi (cosiddette “fascistissime“) che consacrarono la nuova struttura e lo strapotere dello Stato. Ogni speranza legalitaria o di riporto alla legalità del fascismo cadeva. Essa moriva con la soppressione della libertà di stampa, le persecuzioni contro gli antifascisti, col ripristino della pena di morte, l’istituzione di un tribunale speciale per reati politici, l’istituzione dell’O.V.R.A. polizia politica segreta, e con l’attribuzione al potere esecutivo di emanare norme di legge. I normali meccanismi dello Stato di diritto e i fondamenti della libertà politica e della sovranità popolare vennero sovvertiti. A cominciare dal 1926 nelle amministrazioni comunali alla procedura elettiva del sindaco e del consiglio venne sostituita la nomina governativa del podestà e della consulta, così da sconvolgere l’intero ordinamento centrale e periferico nel processo di fascistizzazione dello Stato.

Il Parlamento risultò svuotato di ogni prerogativa e le elezioni (1929) furono ridotte a semplici plebisciti di approvazione di una “lista unica” di deputati designati dal Gran Consiglio. Il capo del governo, che era contemporaneamente duce del fascismo, prese ad occupare il vertice della piramide politica, che simboleggiava l’ordinamento gerarchico del regime, e venne sottratto a qualunque controllo o sanzione, con l’obbligo di rispondere solo al sovrano. Con le elezioni plebiscitarie del 1929 Mussolini poté contare su una Camera tutta composta da fascisti, e il carattere totalitario del fascismo finì rapidamente per coinvolgere ogni settore della vita italiana.

L’opposizione al fascismo

L’antifascismo all’estero

Nel 1926 ebbe inizio l’emigrazione politica degli antifascisti, gli oppositori al regime che venivano ormai perseguirai dallo stato e condannati al confino, al carcere e perfino alla pena di morte.
Emigrarono gli esponenti più prestigiosi della varie forze democratiche, tra cui il liberale Giovanni Amendola. Ripararono all’estero, nelle Americhe e nei diversi paesi d’Europa, anche uomini di cultura, sindacalisti e semplici operai.

In Francia nel 1927 i fuoriusciti socialisti e repubblicani, con l’appoggio di altri antifascisti, diedero vita a una Concentrazione antifascista, allo scopo di condurre un’azione di propaganda contro il regime di Mussolini.

L’antifascismo in Italia

L’unico partito che riuscì a sopravvivere nella clandestinità in Italia fu il Partito comunista, passato sotto la guida di Palmiro Togliatti nel 1926. Le organizzazioni comuniste furono più volte scompaginate dalla polizia fascista; nuclei militanti riuscirono però a diffondere stampa illegale nelle grandi fabbriche, a organizzare proteste operaie e bracciantili, a tenere vivo l’odio per la dittatura.

Oltre alla lotta antifascista dei fuoriusciti e delle organizzazioni comuniste, vi fu in Italia una sorta di resistenza morale da parte di una minoranza di intellettuali che si ispiravano all’insegnamento del filosofo Benedetto Croce. Questi dopo aver aderito al fascismo, se ne allontanò conducendo la sua battaglia per la libertà sulla rivista “La Critica” che Mussolini non osò sopprimere sia per i grande prestigio internazionale di cui godeva Croce, sia per dimostrare agli stranieri che il fascismo garantiva il dissenso e rispettava la libertà di pensiero.

Fascistizzazione della società

Progressivamente il fascismo cercò di irreggimentare l’intera società al fine di ottenere assoluta obbedienza al suo duce. Fu cambiato persino il calendario, numerando gli anni dall’inizio dell’era fascista (1922) e il fascio littorio divenne l’emblema dello stato fascista.

Le giovani generazioni, con la riforma dell’istruzione, non avrebbero conosciuto altra ideologia all’infuori di quella voluta dallo stato fascista. Nell’amministrazione pubblica (uffici, scuole, università) l’iscrizione al partito e la partecipazione in camicia nera alle parate del regime erano indispensabili per fare carriera, mentre nelle aziende private la tessera. Era l’ineludibile premessa per ottenere un lavoro.

L’organizzazione paramilitare della scuola, l’istituto dell’Opera Nazionale Balilla (O.N.B.) valse a monopolizzare, fin dalle prime classi elementari, il processo di formazione educativa dei giovani secondo il principio del “credere, obbedire, combattere”, che tendeva a fare di ogni cittadino essenzialmente un “soldato”, pronto a rispondere agli ordini e fedele esecutore delle direttive imposte dall’alto.

Imbevuto di retorica, il fascismo creò una divisa per ogni italiano, dalla più tenera età fino alla maturità. Marciarono, sfilarono in ogni paese d’Italia, al grido di “Viva il Duce!”, figli della lupa, piccole italiane, balilla, avanguardisti, giovani fascisti e fasciste, fascisti, donne fasciste e massaie rurali, salutando romanamente, battendo il passo romano. Nella scuola fascistizzata, l’insegnamento travisò la storia. Nacque la scuola di mistica fascista.

L’obbedienza al fascismo divenne un obbligo per gli stessi professori universitari, ai quali venne imposto il giuramento come condizione per mantenere la cattedra. Era inoltre prescritto ai giovani un giuramento di fedeltà assoluta al regime con la formula: “Giuro di seguire senza discutere gli ordini del duce…” che veniva scritta sulla tessera consegnata insieme alla pagella. Un’ulteriore gerarchizzazione del mondo giovanile avvenne poi nel 1937 con la fondazione della Gioventù italiana del littorio (Gil) (da littoriali = veri tornei culturali fra universitari), che assorbì l’Onb. Infine a completare l’opera d’indottrinamento, nelle università furono organizzati i Guf (Gruppi universitari fascisti).

Oltre alla dottrina fascista imposta nelle scuole, una funzione importante era affidata all’educazione fisica, impartita da specifici professori di ginnastica con il compito della “preparazione politica, culturale, sportiva e principalmente militare del popolo”. Per questo furono promosse numerose associazioni dopolavoristiche e anche lo sport ebbe un forte impulso con l’istituzione del Comitato olimpico nazionale italiano (Coni), quale strumento per stimolare la competitività e la formazione militare dei giovani.

Per incrementare le nascite, fin dal 1927, un’apposita legislazione penalizzava i celibi con imposte sul reddito, mentre furono istituiti premi per le famiglie numerose. Nel 1935 fu stabilito che l’orario di lavoro terminava il sabato non oltre le ore 13, perché nel pomeriggio i lavoratori e i giovani dell’Onb dovevano obbligatoriamente partecipare alle attività d’addestramento sportivo e paramilitare organizzate dal partito (Sabato Fascista). Nel 1938 venne proibita la “stretta di mano” nei rapporti pubblici e negli uffici. Al posto si doveva fare il saluto romano alzando la mano destra. Erano previste sanzioni contro i trasgressori. Nelle conversazioni s’impose l’uso del “voi” al posto del “lei”. Agli organi repressivi il fascismo affiancava un’ampia e diffusa struttura propagandistica destinata a trasmettere i propri modelli ideologici fondati sul militarismo, sul patriottismo, su un a cultura nazionalistica che rifiutava ogni esperienza artistica straniera, sul maschilismo.

La propaganda del regime fascista

Centrale è la figura del capo, il duce del fascismo Benito Mussolini. Il capo non fonda il suo potere sul carattere sacro o legale della sua autorità, ma sulle sue presunte doti eccezionali che ne fanno una figura infallibile, l’unico punto di mediazione fra quegli interessi sociali divergenti e contrapposti che il regime aveva preteso di annullare. Dal Futurismo e dall’Estetismo in genere, l’ideologia fascista derivava tutta la sua passione per la teatralità, la gestualità, il rituale delle sue molteplici manifestazioni per mobilitare le masse. Più che le idee, dunque, innovative furono le tecniche di condizionamento: la pubblicità, i giornalini a fumetti, la radio e il cinema, le celebrazioni e le manifestazioni di massa, i “dialoghi dal balcone” del duce con il “popolo italiano” radunato in piazza, la valorizzazione nel lavoro manuale attraverso le molteplici interpretazioni del duce.

I discorsi del duce erano trasmessi simultaneamente nelle scuole, nelle officine, nelle piazze di tutto il paese, attraverso altoparlanti. Ma un ruolo ancora più rilevante ebbero gli strumenti di comunicazione visiva. Fin dal 1931 il regime impartì alla stampa direttive molto precise, imponendo di improntare ogni giornale “a ottimismo, fiducia e sicurezza nell’avvenire”, eliminando invece le notizie allarmistiche, pessimistiche, catastrofiche e deprimenti”. Si cominciava a segnalare nel dettaglio non solo quali notizie dovevano essere censurate, ma soprattutto come si dovesse comunicare l’informazione. Una volta occultata la realtà con le misure restrittive e repressive dell’apparato propagandistico, nel mondo dell’immagine le opere del regime esprimevano tutta la loro enfatica monumentalità: le schiere armate e i moderni mezzi bellici si moltiplicavano grazie ai fotomontaggi, i campi traboccavano e le mamme prolifiche sfornavano incessantemente i soldati del domani.

L’immagine inizialmente diffusa di Mussolini era quella dell’uomo di governo, brillante, sportivo, elegante; ma già agli inizi degli anni ’30 incomincia ad affermarsi un’iconografia imperiale, dove la testa isolata del duce è ingigantita o moltiplicata ossessivamente all’infinito dai fotomontaggi. L’immagine del duce era ormai onnipresente e onnipotente: era fotografato mentre trebbiava a torso nudo, fondava città con l’aratro, cavalcava focosi destrieri… Ma il documento fotografico doveva anche comprovare il rapporto di amore e di identificazione tra il duce e il popolo. Se l’immagine non promuoveva una rappresentazione decorosa o edificante della sua figura, doveva essere assolutamente censurata. Il duce era il modello vivente delle virtù fasciste e italiche, tramite la messa in scena delle sue poliedriche attività: non solo era il “trebbiatore”, era anche il “minatore” tra i minatori, spesso il “costruttore” e sempre il “condottiero”.

I rapporti con la Chiesa

Con forte realismo politico Mussolini avvertì, immediatamente dopo l’ascesa al potere, che la Chiesa rappresentava un fattore decisivo di consenso fra i ceti moderati. Infatti, un innegabile successo del fascismo fu la risoluzione della “questione romana” che aveva sempre diviso il paese. A sua volta, il Vaticano ritenne di dover giungere alla stipulazione di un concordato in grado di garantire la presenza della Chiesa nella società italiana. Così, dopo tre anni di difficili trattative, furono stipulati tra il governo italiano e il pontefice Pio XI i cosiddetti Patti Lateranensi (11 febbraio 1929), con i quali fu sancita la conciliazione fa lo stato e la chiesa in Italia.

I Patti lateranensi, firmati per l’Italia da Mussolini e per il Vaticano dal cardinale Gasparri, si fondano su tre documenti:

• Il trattato del Laterano, per il quale lo stato italiano sanciva la sovranità del pontefice sulla Città del Vaticano, mentre il pontefice riconosceva il Regno d’Italia con capitale Roma;

• La Convenzione finanziaria, per la quale lo stato italiano si impegnava a versare alla Santa Sede una forte indennità a titolo di risarcimento per i territori pontifici occupati;

• Il Concordato, per il quale lo stato italiano riconosceva effetti civili al matrimonio religioso e introduceva l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole, mentre la Santa Sede accettava che i vescovi, prima di insediarsi nelle loro diocesi, prestassero giuramento di fedeltà al re d’Italia.

L’accordo non fu giudicato favorevolmente da molti fascisti. Tanti furono i malumori per il pesante riscatto imposto dalla Chiesa, ma quest’ultima, che pur vedeva il cattolicesimo riconosciuto come religione di Stato, accettava il divieto per i cattolici di organizzarsi in partiti politici.
Interventi nell’economia

A partire dal 1925, il fascismo accentuò gli interventi dello stato per regolamentare l’economia nazionale. In primo luogo abolì il diritto di sciopero (che veniva considerato un reato), ponendo nell’illegalità tutte le organizzazioni sindacali a eccezione di quelle fasciste. Poi creò una nuova struttura economico-statale definita ordinamento corporativo. Questo sistema venne istituito attraverso la soppressione della camera dei deputati e la creazione della Camera dei fasci e delle corporazioni (1939). Per scongiurare il contrasto tra proprietari e dipendenti, tutto il mondo del lavoro veniva diviso in 22 corporazioni, ciascuna corrispondente a un’unica categoria. Il fascismo ispirò la politica economica ai principi del protezionismo, sia per favorire lo sviluppo dell’industria e dell’agricoltura nazionale sia per motivi di prestigio.

Nel 1925 ebbe inizio la battaglia del grano con l’obiettivo di assicurare l’autonomia alimentare del paese e di eliminare il deficit della bilancia commerciale. Nel 1928 fu poi lanciata la bonifica integrale, un vasto programma di risanamento e di sistemazione di tutti i terreni montani e vallivi specie del Mezzogiorno e delle Isole; ad essi si aggiunse nel 1934 una vasta bonifica nelle Paludi Pontine.

Sempre nel 1925 Mussolini avviò un imponente complesso di lavori pubblici (autostrade, case, acquedotti, porti, edifici pubblici, risanamento dei centri urbani) che rispondeva all’esigenza di creare infrastrutture nuove e moderne e di dare lavoro ai disoccupati, anziché costringerli come in passato ad emigrare.

Sul versante sociale Mussolini inaugurò la “battaglia demografica“, ritenendo prestigioso per la nazione un forte aumento della natività migliorando i salari dei padri con famiglia numerosa, concedendo prestiti alle coppie di giovani sposi con figli, ecc… Di grande rilievo fu la creazione (23 gennaio 1933) dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), istituzione pubblica nata per salvare le banche e le aziende più colpite dalla crisi. Un’altra operazione economica voluta dagli uomini d’affari fu portata a termine nel 1927 con la rivalutazione della lira rispetto alle monete internazionali, per cui 92 lire furono rese equivalenti a una sterlina, la moneta più pregiata del tempo (la cosiddetta “quota 90”). Con l’aumento del valore della lira le imprese chimiche, siderurgiche e metallurgiche italiane potevano acquistare all’estero le materie prime con minore spesa, ma altri settori produttivi vedevano ridursi la possibilità di esportazioni.

La necessità di ottenere maggiori disponibilità finanziarie costrinse il governo a ricorrere a più pesanti imposte dirette e al cosiddetto prestito del littorio, utilizzando i denari che i piccoli risparmiatori avevano depositato nelle banche. Anche gran parte dei fondi degli istituti di previdenza sociale (Inps, Inail) fu impegnata per finanziare le grandi imprese industriali e agricole.

Nel frattempo i salari degli operai e di molti impiegati furono ridotti del 20-25% (quelli dei braccianti agricoli fino a punte del 50-70%), toccando nel 1934 il livello più basso d’Europa. Nello stesso anno il regime impose una svolta protezionistica, che Mussolini chiamò autarchia, per rendere autosufficiente il paese. Si incrementò l’agricoltura e lo sfruttamento del sottosuolo per tentare di ridurre l’importazione delle materie prime, ma soprattutto si continuò a potenziare il paese sul piano militare, favorendo le industrie meccaniche e siderurgiche.

La politica estera

Mussolini ispirò la politica estera italiana ad un acceso nazionalismo che ben presto si trasformò in imperialismo aggressivo. Preoccupazione costante del fascismo fu quella di imporre l’influenza dell’Italia nel Mediterraneo. L’impresa più notevole fu la conquista dell’Etiopia, l’unico paese africano, a parte la Libia, non ancora soggetto al dominio coloniale e sul quale l’Italia aveva invano rivolto il suo interesse fin dal 1896. Mussolini ordinò l’invasione dell’Etiopia il 2 ottobre 1935. La Società delle Nazioni (comprendente cinquantadue stati) decretò le sanzioni in seguito alle quali gli stati aderenti alla Società si impegnavano a non commerciare con l’Italia. Ma il carbone e il petrolio, senza i quali la guerra sarebbe stata impossibile, non rientravano nel provvedimento e d’altra parte la Russia e la Germania grosse fornitrici dell’Italia non aderivano alla Società delle Nazioni. Lo “strangolamento economico” non ottenne quindi alcun risultato. Le operazioni militari condotte dal generale Pietro Badoglio e dal generale Rodolfo Graziani si conclusero rapidamente. L’impresa etiopica ebbe un’importante conseguenza: determinò l’avvicinamento dell’Italia fascista alla Germania nazista, che aveva aiutato economicamente il nostro paese durante la guerra d’Africa ed aveva prontamente riconosciuta la sovranità italiana sull’Etiopia.

Il ravvicinamento fra Roma e Berlino assunse cadenze più vivaci, a partire dal giugno 1936, sotto la spinta del nuovo titolare della politica estera Galeazzo Ciano. A testimoniare le comuni vedute fra Italia e Germania, giunse il viaggio dal 3 al 10 maggio di Hitler a Roma. Il capo del nazismo è accolto da una serie di manifestazioni spettacolari, abilmente costruite dalla scenografia del regime fascista. Il fascismo, tuttavia, non mirava solo al colonialismo, ma a fascistizzare l’Europa. L’asse Roma-Berlino (cioè il patto militare firmato da Mussolini e Hitler) e il contemporaneo intervento in Spagna rivelarono al mondo che gli Stati democratici nulla più potevano e dovevano concedere ad un fascismo ormai pronto ad assimilare e a partecipare alla politica d’espansione nazista. Il nazi-fascismo mirava ora ad annettere ogni terra dove vivessero in preponderanza tedeschi e italiani.

Le leggi razziali

Seguendo l’esempio di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali (1938-1939). Anche nell’Italia fascista furono decretati una serie di provvedimenti che limitavano gravemente i diritti della dignità della minoranza ebraica, che contava a quell’epoca circa 45 mila persone. Della politica razziale ed antisemita del fascismo si possono individuare due momenti salienti:

  1. La politica razziale interna (1939-1943)
  2. La persecuzione nazi-fascista (1943-1945)

Il primo atto pubblico fu il “MANIFESTO DELLA RAZZA“, pubblicato il 14 luglio del 1938; il punto 9 stabiliva che “gli Ebrei non appartengono alla razza italiana“. Seguì la prima legge antisemita che espulse tutti gli Ebrei (sia alunni sia insegnanti) dalle scuole d’ogni ordine e grado (R.D.L. 5 settembre 1938 n.1390). Per questi primi provvedimenti viene considerato di razza ebraica “colui che è nato da genitori di razza ebraica, anche se professa religione diversa da quella ebraica dei genitori”.

Con la “CARTA DELLA RAZZA“, in data 6 ottobre 1938, in sintesi si stabilisce che:

  • è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei;
  • è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera;
  • è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da matrimonio misto, professa religione ebraica;
  • non è considerato di razza ebraica colui che è nato da matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori dell’ebraica.

Alla data del 1 ottobre XVI (1938) con la legislazione, si arrivò alla proibizione dei matrimoni misti, vennero espulsi gli Ebrei dalle forze armate, dalle industrie, dai commerci, dalle professioni, dagli enti pubblici. Si pose un limite alle proprietà immobiliari, si diminuì la capacità nel campo testamentario, in materia di patria potestà, di adozione, di tutela, di affiliazione.

Quest’opera di espulsione degli ebrei dalla vita sociale si concluse tra il 1939 e il 1940, con altri provvedimenti riguardanti i loro beni e una serie di altre disposizioni ancora più odiose per la loro assurdità: agli Ebrei vennero vietati gli annunci mortuari, essi non poterono più possedere apparecchi radio, i loro nomi vennero tolti dagli elenchi telefonici, fu vietato loro di andare in villeggiatura. Venne vietato qualsiasi tipo di lavoro e addirittura vennero allontanati dalla vita attiva gli Ebrei, che vennero completamente emarginati e trattati senza alcun ritegno e rispetto per la stessa vita umana.

Le leggi razziali provocarono nella comunità ebraica una vasta gamma di reazioni: ci fu chi si chiuse in sé stesso, cercando di adattarsi alle nuove difficoltà, chi invece trovò in questa nuova situazione ulteriori ragioni a sostegno del proprio antifascismo, mentre altri si piegarono al compromesso per salvare la propria famiglia.

In questo quadro si collocano le conversioni di alcuni al cattolicesimo – mentre altri, per reazione, si avvicinarono alla religione dei padri verso la quale sino ad allora erano stati indifferenti –, l’uso di tutte le norme e gli spazi lasciati dalle leggi e la ricerca di ogni possibile sostegno nella rete di amicizie e di conoscenze che essi avevano con i non ebrei.

In generale la comunità ebraica non reagì alle persecuzioni fasciste. Si accentuarono i fenomeni migratori verso altri paesi, in particolare la Francia e l’America latina.

La fine del fascismo e la repubblica di Salò

Le ripercussioni delle sconfitte militari sulla fiducia nel regime furono molto forti. Gli scioperi scoppiati nelle fabbriche del Nord nel marzo del 1943 (in particolare Torino) erano stati un campanello d’allarme circa lo stato d’animo delle masse lavoratrici. Il 19 luglio per la prima volta Roma fu bombardata dall’alto come tante altre importanti città. Timoroso di essere travolto insieme a Mussolini, Vittorio Emanuele III decise di staccare la Casa Savoia dal fascismo e precostituire le basi di una soluzione moderata. Contava per questo sull’opposizione interna al Gran Consiglio del Fascismo capeggiato da Dino Grandi, che nella riunione del 25 luglio 1943 propose un ordine del giorno di sfiducia nei confronti di Mussolini.

Il Gran Consiglio approvò l’ordine del giorno ed il re, prendendo atto di ciò, comunicò a Mussolini di considerarsi dimissionario e che il suo successore era il generale Badoglio. All’uscita da Villa Savoia Mussolini fu arrestato e imprigionato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Il 12 settembre 1943 Mussolini fu liberato per desiderio di Hitler e, tornato in Italia, il 23 settembre 1943 fonda la Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò. L’obiettivo fu di instaurare uno stato fascista nel Nord d’Italia. Intanto in molte località del Nord e dell’Italia centrale gruppi antifascisti formarono piccoli gruppi di guerriglia. Il loro punto di riferimento divenne il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) fondato il 9 settembre 1943 per iniziativa dei maggiori partiti antifascisti (comunisti, cattolico-comunista, repubblicani, democratico cristiano, liberali, socialisti).

I partigiani erano un vero e proprio esercito, strutturato in brigate, formazioni gerarchicamente inquadrate, disciplinate. La maggior parte dei patriottici apparteneva a formazioni comuniste (Brigate Garibaldi) mentre il restante dal movimento di Giustizia e Libertà, d’orientamento socialista e radicale, da cui scaturì il partito d’Azione.

Il crollo germanico segnò anche la fine del governo neofascista di Salò che si dissolse in poche ore. Mussolini ed altri capi fascisti tentarono di mettersi in salvo, fuggendo in Svizzera; ma furono riconosciuti e catturati da un gruppo di partigiani. Condannato a morte dal Comitato di Liberazione Nazionale, Mussolini fu fucilato il 28 aprile 1945.

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