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Gli stoici

Introduzione allo stoicismo.

Pochi anni dopo la fondazione della scuola di Epicuro, verso il 301-300 a. C., Zenone di Cizio (località  situata sull’isola di Cipro) fonda in Atene un’altra scuola, la Stoa poikilh (ovvero il “portico dipinto”), situata non ai margini, ma nel cuore della città , nei pressi dell’agora (la piazza principale). Questo fatto già  denota una netta differenza rispetto alla scuola epicurea: la scuola stoica s’integrerà  sempre più nella realtà  cittadina e nel suo apparato educativo. Un decreto cittadino, infatti, onorò Zenone per essere stato con la sua vita modello per i giovani ateniesi. Morto forse per suicidio a 72 anni, verso il 262-61 a. C., Zenone fu sepolto a spese pubbliche nel cimitero della città , sebbene non fosse di Atene (infatti vi era giunto verso il 311 da Cizio, dov’era nato verso il 333-32 a. C. ). Un aneddoto racconta che ad Atene, in una bottega di libraio, udì leggere I memorabili di Senofonte, che parlavano di Socrate, e chiese dove si potevano trovare uomini simili. Il libraio gli indicò il cinico Cratete, che stava passando in quel momento. Zenone avrebbe dunque seguito dapprima l’insegnamento cinico, che, unitamente alla ripresa di alcuni temi platonici, avrebbe lasciato tracce in una delle sue prime opere, La Repubblica. In essa, infatti, egli propugnava l’abolizione della moneta, dei templi e dei matrimoni, ravvisava la vera comunità  nella comunità  dei buoni, ma ammetteva anche la liceità  dell’incesto e, in casi di necessità , dell’antropofagia. In seguito, Zenone dovette abbandonare questo legame troppo stretto con il cinismo, studiando le tecniche della discussione e dell’argomentazione, ossia la dialettica, con Stilpone e Diodoro Crono, che la tradizione collega a un altro filone del socratismo, la scuola megarica. Ben presto, tuttavia, egli fondò una scuola propria, affiancando all’attività  di insegnamento, la composizione di scritti. Nessuno di questi ci è pervenuto: di essi abbiamo soltanto titoli e scarsi frammenti. Questa sorte è toccata all’intera letteratura stoica dell’età  ellenistica, cosicchè per la ricostruzione di questa filosofia occorre attingere alle discussioni che ne fecero gli autori antichi, in primo luogo Cicerone (che dello stoicismo ammirava soprattutto l’etica): ma le fonti tendono a parlarci degli stoici come se si trattasse di un blocco monolitico, senza operare distinzioni (spesso senza neanche nominarli) tra i vari autori stoici. A Zenone successe nella direzione della scuola Cleante di Asso (in Asia minore). Sino alla sua morte, avvenuta nel 230-29 a. C, Cleante si trovò ad affrontare, da una parte, le critiche mosse alle dottrine stoiche dagli accademici e, dall’altra, l’orientamento cinicheggiante che un altro allievo di Zenone, Aristone di Chio, voleva imprimere allo stoicismo, indicando come essenziale per la filosofia soltanto l’indagine etica. Cleante, al contrario, diede particolari contributi soprattutto alla fisica e alla teologia. L’unico scritto stoico di questo periodo a noi conservato nella sua integrità  è appunto l’ Inno a Zeus di Cleante, nel quale egli esalta il reggitore divino dell’universo. A Cleante successe Crisippo di Soli (situata anch’essa in Asia Minore), che fu scolarca sino alla sua morte, avvenuta tra il 208 e il 204 a. C. Egli intraprese un’opera di sistematica ricostruzione dello stoicismo, componendo una serie enorme di opere (circa 700, tra cui i soli titoli di opere logiche ammontano a 311). Con esse egli rispose anche alle obiezioni degli avversari, in particolare all’accademico Arcesilao. Gli scritti di Crisippo erano colmi di citazioni da scritti altrui, in particolare da poeti; esse erano utilizzate sia per sostenere le proprie tesi sia per criticare quelle altrui, in questo senso egli fu definito polemicamente un “parassita di libri”. Ma il confronto con dottrine e argomentazioni avanzate da altri indirizzi filosofici fu essenziale per l’attività  di Crisippo e, in generale, degli stoici. Essi riuscirono in tal modo a imporre il proprio vocabolario filosofico, che divenne una sorta di koinh, di lingua comune, nella quale potevano essere esposti i contenuti anche di filosofie diverse dallo stoicismo. Per la sua vasta opera di difesa e sistematizzazione delle dottrine stoiche, Crisippo fu considerato una sorta di secondo fondatore dello stoicismo, tanto da generare l’affermazione che senza Crisippo non ci sarebbe stata la Stoà . Non di rado dottrine attribuite dalla tradizione antica agli stoici in generale sono riconducibili proprio a Crisippo. A lui successe il discepolo Diogene di Babilonia, originario di Seleucia, che nel 155 a. C. avrebbe fatto parte, insieme all’accademico Carneade e al peripatetico Critolao, di una celebre ambasceria inviata dagli Ateniesi a Roma. Questa data sancisce in qualche modo la data di contatto ufficiale della filosofia greca con il mondo romano, che – da conquistatore – fu conquistato dalla cultura greca (celebre l’espressione di Orazio “Graecia capta ferum victorem cepit”) e – sul piano filosofico – soprattutto dallo stoicismo. L’efficacia dell’insegnamento stoico, comunque, si protrasse sino ai primi secoli dell’impero di Roma. Gli stoici riprendono in generale la connessione stretta che Socrate e, sulla sua scia, Platone avevano stabilito fra virtù e sapere. In modi diversi, sia Aristotele sia Epicuro avevano allentato questa connessione. Con gli stoici invece il sapiente e l’uomo virtuoso tornano a coincidere. L’affermazione secondo cui il sapiente è infallibile è un dato ricorrente a partire da Zenone: la conoscenza infallibile dell’ordine razionale e divino del mondo si traduce necessariamente in un comportamento razionale del tutto conforme a quest’ordine. Il sapiente è dunque perfettamente inserito in un ordine rassicurante e presenta una regolarità  di comportamenti analoga a quella della natura, senza falle nò oscillazioni. Ciò dipende dal fatto che il sapiente, per il suo sapere, si è sottratto definitivamente all’area fluttuante e ingannevole delle opinioni e delle passioni, nella quale precipita la maggior parte degli uomini. In tal modo, il sapiente stoico diventa il vero erede della morale militare, colui che non abbandona mai il proprio posto di fronte a qualsiasi attacco, tanto delle passioni quanto della sorte o dei tiranni. Di qui nasce l’immagine popolare dello stoico imperturbabile, che ancor oggi nel linguaggio e nel modo di pensare comune coincide con l’immagine del filosofo. Il nocciolo di questa immagine è la stabilità : la sapienza occupa una posizione incrollabile, è un vertice oltre il quale non si può procedere. In questa prospettiva, è facile giungere ad equiparare la virtù degli dei e degli uomini e, nel caso del sapiente stoico, il dislivello rispetto alla divinità  sembra addirittura scomparso. L’equiparazione tra vita del sapiente e vita divina diventa una potente affermazione del primato dell’attività  filosofica su tutti gli altri tipi di vita condotti dagli uomini. Tuttavia, il sapiente ò una figura limite: gli stoici riconoscono che il sapiente non è mai esistito o, nel migliore dei casi, è esistito pochissime volte, o – come dice Seneca – uno ogni cinquecento anni, come la fenice; meno frequente dei parti di una mula, dice Crisippo. Ciò che è importante però non è tanto la sua esistenza effettiva; infatti, con la costruzione della figura del sapiente, gli stoici intendono presentare ai destinatari del loro insegnamento un modello, forse irraggiungibile, ma proprio per la sua globalità  e radicalità  capace di offrire un orientamento completamente nuovo e senza incertezza alla vita. Di fronte ad esso nò la sorte nò le vicende storiche o le condizioni fisiche, politiche o sociali hanno potere. Lo stoico che insegna nella scuola non è il sapiente, ma è almeno in grado di darne il ritratto e di indicarlo come norma. Di qui il successo per secoli dell’insegnamento stoico presso le elìte di governo nel mondo di lingua greca e a Roma. Ma quali sono i contenuti di questo insegnamento? Gli stoici hanno una concezione fortemente unitaria e sistematica della filosofia, che ricalca la tripartizione peculiare dell’età  ellenistica di cui sono figli. La filosofia, dunque, si articola in tre parti: logica, fisica ed etica, ma tra queste parti intercorrono legami organici indisgiungibili. Essi utilizzano vari paragoni per illustrare questo aspetto: la logica è analoga alle ossa e ai nervi in un corpo vivente, l’etica alle sue carni e la fisica all’anima, oppure la logica è analoga al guscio in un uovo, l’etica alla chiara e la fisica al tuorlo. Fra le tre parti della filosofia non esiste una gerarchia: certo rispetto al fine del vivere bene, la logica e la fisica appaiono subordinate rispetto all’etica (aspetto tipico della filosofia ellenistica), ma in vista del benessere, occorre essere sapienti e quindi possedere pienamente anche la conoscenza della logica e della fisica. La tripartizione della filosofia ha quindi per gli stoici solo una funzione espositiva e pedagogica: per trasmettere la conoscenza della filosofia stoica occorre darne l’esposizione parte per parte. La sequenza consueta è: prima la logica, poi la fisica e infine l’etica. Il termine logica deriva da logoV, che significa sia ragione, sia discorso. Per gli stoici essa non è, come per Aristotele, un organon, uno strumento della scienza, ma una parte specifica del sapere filosofico. I suoi oggetti sono i discorsi. Essa si articola in retorica, o scienza dei discorsi lunghi, e dialettica che Crisippo definisce come scienza delle cose significate e significanti. Si tratta allora di chiarire il senso di questa definizione. Anche per gli stoici, come per gli epicurei, la conoscenza trae origine dalla sensazione. Quando l’uomo nasce, la sua mente è una sorta di tabula rasa, ossia di tavoletta di cera senza segni incisi su di essa (come già  aveva sostenuto Aristotele, benchè egli mai sia menzionato dagli stoici); appena un oggetto esterno colpisce i sensi si forma la rappresentazione o fantasia (anche questo ò termine aristotelico) di esso. Le rappresentazioni sono conservate nella memoria e da memorie ripetute di una stessa cosa si formano i concetti o nozioni generali. A partire da questi concetti si possono formare, per somiglianza, analogia, trasposizione, composizione e contrarietà , altri concetti, che non hanno un corrispettivo nel mondo sensibile. Tali sono per esempio i concetti di centauro o di spazio, che non sono oggetti sensibili. Nella sua prima fase, il processo di conoscenza è puramente passivo: Zenone lo paragona alla mano aperta. Nelle fasi successive si ha invece un intervento attivo da parte di chi conosce: Zenone paragona l’assenso, dato dalla mente alla rappresentazione, alla mano parzialmente chiusa. Infatti, di fronte alle rappresentazioni possiamo reagire o dando l’assenso, o non dandolo, o sospendendolo: e proprio nel riconoscere questa libertà  di giudizio gli Stoici garantiscono, in una certa misura, una forma di libertà  all’uomo; se, infatti, non possiamo scegliere se avere o meno rappresentazioni, ciononostante possiamo scegliere come reagire ad esse, concedendo o negando il nostro assenso. Particolarmente importante ò la sospensione dell’assenso (epoch), che costituirà  il perno della filosofia scettica e sarà  destinata ad avere vita lunga nella storia della filosofia. L’assenso consiste nel porre attenzione alla rappresentazione dell’oggetto. La mano stretta a pugno corrisponde invece alla katalhyiV, che significa comprensione, nel senso letterale di “afferrare”. Secondo gli stoici l’errore è possibile e può dipendere da malattie, allucinazioni o condizioni che impediscono di percepire adeguatamente le cose. Esso consiste nel dare l’assenso a rappresentazioni che non hanno corrispondenza nella realtà . La rappresentazione catalettica o comprensiva è, invece, sempre attendibile in quanto viene impressa in base all’oggetto che la produce: essa rinvia in ogni caso alla sua causa, ossia all’oggetto reale, che è la garanzia della sua attendibilità . Essa è dunque il criterio di verità . Le opinioni, invece, sono anch’esse assenso a qualcosa, ma si tratta di un assenso debole e falso. Gli stoici, infatti, non ammettono uno stato intermedio tra il conoscere e il non conoscere, come non ammettono uno stato intermedio tra l’essere sapienti e il non esserlo: chi sa molto ma non tutto – essi argomentano – si trova sullo stesso piano di chi non sa nulla, come chi ò distante da Atene 5 km non ò in Atene al pari di chi da essa ò distante 1000 km o come chi ò con la testa a 5 cm sott’acqua annega al pari di chi ce l’ha a 1000 metri di profondità . La conoscenza, o scienza vera e propria, consiste nell’afferrare una cosa in modo tale che la nostra comprensione di essa non può essere abbattuta da alcuna argomentazione: essa è paragonata da Zenone al pugno che viene stretto dall’altra mano. La conoscenza è, dunque, infallibile e può dimostrare ciò che conosce mediante proposizioni che sono necessariamente vere. A differenza degli animali, che emettono soltanto suoni, l’uomo può formulare le sue conoscenze in un linguaggio articolato, consistente di proposizioni che stabiliscono connessi corrispondenti a stati di cose o eventi del mondo. Gli stoici diedero importanti contributi allo sviluppo della grammatica, costruendo una terminologia che rimase in vigore per indicare, ad esempio, i tempi dei verbi o i casi dei nomi e degli aggettivi. Le parole, come insiemi di suoni proferiti, sono corporee, invece “ciò che è detto” o “ciò che può essere detto” ( in greco lekton, tradotto a volte anche con significato) è incorporeo. Corporeo, infatti, per gli stoici (memori della lezione del Sofista platonico) è ciò che ha la possibilità  (dunamiV) di agire o di subire un’azione, ma il significato di un enunciato non possiede questo requisito. Gli stoici distinguono, infatti, tra l’oggetto reale, che è corporeo, l’insieme di suoni articolati, che sono anch’essi corporei e mediante i quali significhiamo l’oggetto, e, infine, il significato (lekton), che è ciò che significhiamo mediante questi suoni: esso consente di riferire il nome alla cosa. La dialettica ha, appunto, per oggetto questi significati, non cose, ma enunciati sulle cose, ciò che si dice o si può dire su di esse. I lekta possono essere incompleti, com’è il caso di verbi senza soggetto (per esempio “ride”), oppure completi (per esempio “Socrate dorme”). Questi ultimi sono denominati dagli stoici axiomata, ossia proposizioni o asserti, e sono suscettibili di essere veri o falsi, come già  avevano riconosciuto Platone e Aristotele. Essi pertanto si distinguono da altri tipi di lekta, quali la preghiera o il comando e così via. La verità  o la falsità  di essi è determinata dalla loro corrispondenza o non corrispondenza con lo stato di cose manifestato dalla rappresentazione comprensiva. Questa ci mette sempre in presenza di oggetti o eventi particolari, non universali. Secondo gli stoici non esistono universali in natura, sicchò proposizioni del tipo “l’uomo è un animale razionale” non sono propriamente vere o false; essi pertanto trasformano questo tipo di proposizioni in proposizioni condizionali quali “se qualcosa è un uomo, allora è un animale razionale”. Ciò ha importanti conseguenze sul modo in cui gli stoici concepiscono la logica; essa, infatti, assume a proprio oggetto non termini universali e relazioni di inclusione di generi e specie, come quella aristotelica, bensì proposizioni che enunciano fatti o eventi concernenti entità  singole. Gli stoici, come già  Aristotele, prestano attenzione alla forma logica di alcuni asserti e a tale scopo fanno uso di variabili per indicare appunto le proposizioni, mentre Aristotele ne aveva fatto uso per indicare i termini che costituiscono proposizioni del tipo “A è B” o, nella terminologia aristotelica, “B appartiene o inerisce ad A”. Aristotele usava lettere dell’alfabeto per indicare queste variabili, mentre gli stoici usano le espressioni: primo, secondo. Particolare attenzione è dedicata da essi alle proposizioni composte di proposizioni semplici mediante le particelle “e”, “o”, “se”. Nel primo caso si ha la congiunzione (per esempio “è giorno e c’è luce”): essa è vera quando entrambe le proposizioni componenti sono vere. Mediante la particella “o” si forma invece la disgiunzione (per esempio, “è giorno o è notte”): essa è vera quando solo una delle due proposizioni componenti è vera, e non entrambe. Particolare importanza secondo gli stoici rivestono i condizionali o implicazioni, che hanno la forma: “se il primo, allora il secondo”, dove “se il primo” è l’antecedente e “allora il secondo” il conseguente: per esempio, “se è giorno, allora c’è luce”. Un condizionale può essere valido, senza essere necessariamente vero: infatti, l’antecedente “se è giorno” può non corrispondere a uno stato di fatto (se, per esempio, è notte) e quindi neppure il conseguente, ma ciò non toglie validità  al condizionale. Quando si può dire che un condizionale è vero? Per gli stoici un condizionale è vero quando l’antecedente e il conseguente sono entrambe veri o entrambi falsi oppure quando l’antecedente è falso e il conseguente è vero. Esso è falso in un unico caso, ossia quando l’antecedente è vero e il conseguente è falso. I condizionali, stabilendo connessioni tra proposizioni che si riferiscono a stati di fatto o eventi, sono essenziali per la costruzione di argomentazioni. Queste sono formate da due premesse e una conclusione, ma non hanno la forma di un sillogismo aristotelico, in quanto non si fondano sulle relazioni d’inclusione fra termini che indicano concetti universali, quanto su relazioni tra proposizioni. In particolare, la dimostrazione è un ragionamento che, partendo dalle premesse, per via deduttiva, scopre una conclusione che non è manifesta. Gli stoici ritengono che tutte le argomentazioni siano riducibili a 5 schemi validi o concludenti, detti anapodittici, ossia indimostrati o indimostrabili, mediante i quali si costruiscono le dimostrazioni, ma che a loro volta non possono essere oggetto di dimostrazione. In questi schemi ricorrono alcuni tipi di proposizioni complesse, quali i condizionali, di cui si è parlato, le proposizioni congiunte (in particolare la negazione di due proposizioni congiunte, ossia non: e p e q) e le disgiunzioni. I 5 schemi, nei quali le lettere dell’alfabeto stanno per proposizioni, sono: 1 ) Se p, allora q, ma p dunque q (es. Se è giorno, c’è luce; ma è giorno, quindi c’è luce) 2 ) Se p, allora q, ma non q, dunque non p (es. Se è giorno, c’è luce, ma non c’è luce, dunque non è giorno) 3 ) Non: e p e q ma p dunque non q (es. Non: è giorno ed è notte, ma è giorno; dunque non è notte) 4 ) O p o q, ma p dunque non q (es. O è giorno o è notte, ma è giorno; dunque non è notte) 5 ) O p o q, ma non q dunque p (es. O è giorno o è notte, ma non è notte; dunque è giorno) Gli schemi argomentativi, messi in luce dall’analisi logica, riflettono le connessioni che sussistono tra gli stati di fatto e gli eventi dell’universo. La fisica è la parte della filosofia che indaga il modo in cui sono per natura le cose e i legami che intercorrono tra esse. Il mondo manifesta la presenza in esso di due principi, uno attivo e uno passivo. Riprendendo probabilmente alcune analisi aristoteliche, gli stoici identificano il principio passivo con la materia, mentre il principio attivo agisce su di essa come causa efficiente che conferisce la forma. Ma la distinzione tra i due principi è soltanto concettuale; nella realtà  sono indisgiungibili e sono entrambi corporei. Riprendendo la definizione di essere, avanzata da Platone nel Sofista, secondo cui l’essere è tutto ciò che ha la possibilità  di compiere o di subire un’azione, essi identificano l’essere con ciò che è corpo. La materia, pertanto, in quanto passività , è soltanto un aspetto della corporeità ; l’altro aspetto è dato dal principio attivo, che gli stoici identificano con la natura o Dio, che essi chiamano anche logoV, ragione. Dio, dunque, si mescola con la materia, la penetra e le dà  forma: per questo aspetto, la dottrina stoica fu qualificata come una forma di panteismo. L’esistenza della divinità  è confermata per gli stoici dal consensus omnium (come già  per Epicuro), ma essi aggiungono anche alcune argomentazioni a favore di essa. Crisippo, ad esempio, formula questo ragionamento: se nel mondo c’è qualcosa che l’uomo non è in grado di produrre, allora ciò che lo produce dev’essere superiore all’uomo; ma i cieli e tutto ciò il cui ordine è sempre lo stesso non possono essere prodotti dall’uomo; dunque ciò che lo produce è superiore all’uomo: esso è Dio. Questa argomentazione risale dall’ordine dell’universo al suo produttore, mentre un altro argomento di tipo finalistico mira a mostrare che – per dirla con Leibniz – il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili ed è ordinato in vista dell’uomo. In questo senso, la divinità  appare agli stoici, sulla scia del Platone del Timeo e in netta opposizione nei confronti dell’ epicureismo, come provvidenza. La divinità  è ragione che fa del mondo un insieme ordinato e armonizza anche ciò che è imperfetto, ma ò una provvidenza immanente al mondo stesso (e non trascendente, come la voleva Platone). Il male stesso appare giustificato nell’economia del tutto; esso non è altro che un sottoprodotto del bene: per esempio, la fragilità  della testa umana è dovuta al fatto che essa è fatta di ossa piccolissime, più adatte alla funzione che le è propria. Crisippo asserisce che il rapporto bene/male ò equivalente a quello luce/ombra: come non si capirebbe che cosa ò la luce se non vi fosse anche l’ombra, così non si capirebbe che cosa ò il bene se non vi fosse anche il male. Il principio divino è unico; gli dei della religione tradizionale non sono altro che nomi dei fenomeni naturali e manifestazioni dell’unica divinità , che gli stoici chiamano anche Zeus. Ma anche la divinità  è corporea, giacchè, se fosse incorporea, essa non avrebbe possibilità  di agire e ordinare razionalmente il mondo, poichè solo il corporeo può agire sul corporeo. Riprendendo la connessione di Eraclito tra LogoV e fuoco, i primi stoici (Zenone e Cleante), identificano il principio attivo con il fuoco artefice. Il mondo nasce e perisce secondo una vicenda ciclica (come già  aveva sostenuto Empedocle): dopo un periodo di parecchie migliaia di anni, ha luogo una ekpurosiV, una conflagrazione universale, nella quale tutto si dissolve nel fuoco; poi il fuoco artefice, che coincide con la ragione divina, contenente le ragioni seminali (logoi sphrmatikoi) di tutte le cose, provvede a ricostruire il mondo, che ripercorre quindi un altro ciclo; questo nuovo mondo sarà  perfettamente identico al precedente: è l’ eterno ritorno dell’uguale, delle stesse cose e degli stessi eventi. Esso non può essere diverso dal precedente, perchò se fosse diverso, ciò significherebbe che è migliore o peggiore del precedente, ossia che uno o l’altro non sarebbe il migliore dei mondi possibili, contraddicendo la tesi che l’azione razionale e provvidenziale della divinità  dà  sempre luogo al migliore dei mondi possibili. La conclusione è dunque che ogni ciclo sarà  perfettamente uguale ai precedenti. Soprattutto a partire da Crisippo il logoV divino viene identificato con il pneuma (soffio), un composto di aria e fuoco. La nozione di pneuma aveva già  trovato impiego nella biologia aristotelica e nella medicina, tra l’altro per spiegare i processi della respirazione e del movimento. Ad esso gli stoici attribuiscono la funzione di tenere insieme, compatti, i due elementi passivi, l’acqua e la terra: ciò dipende dalla tensione (tonoV), che il pneuma stabilisce tra le singole parti. Esso fa, dunque, dell’universo un continuum dinamico, una sorta di unico grande essere vivente, percorso incessantemente da questo soffio caldo. Di qui deriva l’interdipendenza tra tutte le parti dell’universo, che gli stoici chiamano simpatia (sumpaqeia), nel senso che ogni evento ha ripercussioni su ogni altra parte del mondo. Ciò rafforza il senso di appartenenza dell’individuo alla totalità  cosmica, nella quale tutto coopera, e spiega anche perchò gli stoici siano generalmente propensi ad accettare l’astrologia, inclusa la pratica degli oroscopi: essa, infatti, parte dall’assunzione che gli astri esercitano una influenza diretta sulla vita degli uomini non solo in generale, ma nei particolari. La concezione stoica dell’unità  del cosmo, retto da un unico principio attivo, trova espressione nella teoria della causalità  universale. Tutto ciò che avviene per una causa, e, a sua volta, tutto ciò che avviene è causa di qualcos’altro. L’universo è retto da un’unica catena causale: un evento privo di causa frantumerebbe l’unità  e la compattezza dell’universo, in quanto ci sarebbe qualcosa che non è determinato dalla natura e dalla ragione divina. Il caso è per gli stoici soltanto un nome per indicare cause che ci sono sconosciute, ma, in linea di principio, qualsiasi evento, dipendendo da una causa, può essere previsto. Su questa base gli stoici giustificano la legittimità  della divinazione, ossia della predizione del futuro in base all’interpretazione dei segni che in vari modi la divinità  invia agli uomini. E il fatto che dio ci lasci sapere in anticipo quel che accadrà  non fa che avvalorare la tesi che lo vuole buono. In generale, gli stoici intendono per causa la causa produttrice di stati di cose o eventi; Crisippo distingue ulteriormente una causa interna e una esterna: entrambe sono necessarie per produrre un determinato effetto, ma la principale è quella interna. Poniamo, per esempio, che ci sia un cilindro su un piano inclinato; perchò esso si metta a rotolare occorre una spinta (ecco la causa esterna), ma occorre anche che esso abbia una determinata natura, cioò che sia appunto di forma cilindrica (ecco la causa interna): il modo in cui un oggetto reagisce a una causa esterna è dunque determinato dalla sua natura. Anche le cause interne, allora, rientrano nell’ordinamento causale necessario dell’universo. Ciò, come vedremo, ha importanti conseguenze nella spiegazione dell’agire umano. Il pneuma è presente in proporzioni differenti nei differenti piani della realtà , nelle piante, negli animali e nell’uomo adulto. L’anima umana è una porzione di questo soffio vitale ed è quindi anch’essa corporea. Essa è costituita dai cinque sensi, dalle facoltà  di generare e di parlare e dell’egemonico o principio direttivo, che ha la sua sede nel cuore, come già  sosteneva Aristotele. Gli stoici rifiutano la tripartizione dell’anima elaborata da Platone: l’anima è, invece, un’entità  unitaria, il cui principio direttivo è la ragione. Nell’uomo anche l’appetizione e le passioni dipendono dalla ragione; i conflitti morali non derivano, quindi, da conflitti tra parti diverse dell’anima, razionali e passionali, ma riguardano tutti la ragione e il suo uso. L’appetizione, ossia il desiderare una certa cosa e tendere verso di essa, si fonda su un’operazione intellettuale, cioò su un atto di assenso a tale desiderio, il quale si traduce nella spinta ad agire in un determinato modo. Per esempio, quando si riceve la rappresentazione di un dolce, l’eventuale assenso a questa rappresentazione si compone di un giudizio di valore sul dolce stesso, considerato meritevole di essere mangiato, e insieme di un comando che spinge a mangiarlo. Anche le passioni, secondo Crisippo, consistono in un giudizio falso su ciò che è bene o male: la paura, ad esempio, è il giudizio su un male imminente che sembra insostenibile; l’avidità  giudica il denaro un bene e così via. Come l’appetizione, anche la passione contiene un giudizio di valore, ma è meno razionale della prima; essa è propria di chi ha una ragione priva di tonoV, in cattiva salute, instabile, la quale pertanto sbaglia. Su questi presupposti antropologici si costituisce l’etica degli stoici. La natura, in quanto espressione della razionalità  divina, è il criterio in base a cui stabilire ciò che ha valore: essa determina infatti il fine di ciascun essere. La nozione di natura è al tempo stesso la descrizione di ciò che una cosa (per esempio, l’uomo) e la norma che prescrive ciò che la cosa così descritta deve essere. Ogni essere vivente, anche l’uomo appena nato, è per natura disposto ad amare se stesso (in greco oikeiosiV, letteralmente “rendersi affine, conforme a se stesso”) e quindi il suo primo impulso è per l’autoconservazione: esso lo spinge verso tutto ciò che contribuisce ad essa, cibo, riposo e così via e lo allontana da ciò che lo danneggia. Ma passando all’età  adulta, nell’uomo si sviluppa la ragione, che trasforma gli impulsi innati nel bambino e fa emergere altri oggetti di desiderio. In particolare essa conduce alla conoscenza che la virtù è ciò che è proprio dell’uomo, più di qualsiasi altra cosa che contribuisca all’autoconservazione. Per gli esseri razionali il vivere secondo natura si identifica, dunque, con la norma del vivere secondo ragione. Con la ragione, poi, che è nient’altro che una parte della ragione universale o divina, l’uomo può arrivare a conoscere ciò che è veramente bene e ad apprendere che la vita associata e la virtù sono cose che appartengono in maniera primaria alla natura umana. Compito dell’uomo sarà  in primo luogo compiere azioni convenienti (kaqhkonta): si tratta cioò di quelle azioni il cui punto di partenza non è un semplice impulso, ma la ragione, e che, una volta compiute, possono essere giustificate razionalmente. Ma di per sò compiere un’azione conveniente non è agire bene, perchò la ragione può essere retta o distorta; le passioni, per esempio, in quanto giudizi errati, possono spingere a desiderare ciò che non è bene come se lo fosse. L’uomo veramente buono è privo di passioni e agisce soltanto in accordo con la virtù: in ciò consiste l’azione retta (katorqwma). La suprema norma morale può allora essere formulata come vivere secondo virtù: in ciò consiste il dovere perfetto, non quello puramente relativo concernente le azioni convenienti. Per gli stoici, solo la virtù ha valore assoluto, mentre tutte le altre cose, come la ricchezza o la salute e così via, hanno valore soltanto relativo, in quanto possono essere usate bene o male: così la ricchezza è sì preferibile alla povertà , ma non è un ingrediente della virtù, poichò in relazione all’essere moralmente buoni non c’è alcuna differenza tra l’essere ricchi o l’essere poveri. Bene e male sono soltanto, rispettivamente, la virtù e il vizio, mentre le altre cose, persino la vita e la morte, sono definite dagli stoici indifferenti (adiafora); tuttavia, tra le cose indifferenti alcune sono preferibili, come l’essere ricco all’essere povero, e altre da respingersi, come l’essere malato. Così la vita è preferibile alla morte, ma ci sono circostanze nelle quali il suicidio è giustificabile, in particolare quando il conservarsi in vita fosse di ostacolo all’esercizio della virtù, caso testimoniato dall’esperienza di Seneca. Per essere felice l’uomo non ha bisogno di nulla all’infuori della virtù contrariamente a quanto aveva pensato Aristotele, la felicità  non ha bisogno di beni esterni; in questo senso, gli stoici sostenevano che il sapiente è felice anche nei tormenti. E la felicità , come la virtù, non ammette gradi: o si è virtuosi o non lo si è. Non c’è differenza nell’essere a dieci, a cento chilometri da Atene: in entrambi i casi non si è in Atene; così non c’è differenza tra le colpe: sono tutte uguali, sicchò non v’ò differenza tra uccidere un pollo e uccidere un uomo. La conseguenza è che non c’è progresso verso la virtù: il passaggio dal vizio alla virtù, quando avviene, è istantaneo e la virtù, quando è presente, lo è nella sua globalità , non a segmenti. Nella migliore delle ipotesi i più riescono a compiere soltanto azioni convenienti, non azioni rette, che sono quelle che caratterizzano il vivere secondo virtù; secondo gli stoici soltanto il sapiente, ossia l’uomo perfetto, si trova in questa condizione: rispetto ad esso, dunque, i più sono stolti o folli. Queste tesi furono considerate dagli antichi dei paradossi, ossia contrarie alle opinioni comuni (para+doxa). Ma è possibile all’uomo vivere secondo virtù e quindi essere felice? La virtù non può esistere senza il suo contrario, il vizio. Secondo gli stoici solo l’uomo, tra gli esseri naturali, grazie al possesso della ragione, è dotato della capacità  di agire bene o male, ossia in accordo con la natura o contro di essa. Sin dall’inizio, infatti, egli è dotato di impulsi e semi di virtù che deve sviluppare; a tale scopo occorre grande sforzo, dal momento che gli è anche possibile agire male. Su questo punto gli stoici recuperano il tema cinico del ponoV, della fatica come ingrediente della vita morale: non dipendono dal singolo l’ambiente e le circostanze nelle quali egli nasce e vive, come non è in suo potere il successo delle proprie azioni, ma sono in suo potere l’intenzione e il modo in cui egli agisce in relazione a tale ambiente e a tali circostanze. E’ rilevante, nella riflessione stoica, questo riferimento all’intenzione: un cane legato a un carro necessariamente correrà ; egli può correre di propria volontà  oppure no, ma anche in questo caso sarà  trascinato, aumentando però la propria sofferenza. Seneca a tal proposito asserisce: “ducunt volentem fata, nolentem trahunt”. Questo esempio chiarisce il modo in cui gli stoici affrontano il problema della libertà  umana. A tale questione intende rispondere la distinzione formulata da Crisippo tra cause esterne e cause interne di un evento e, quindi, anche di un’azione. In sede morale la causa interna di un comportamento consiste nell’assenso, ossia nel formulare un giudizio di valore, per esempio, che è bene compiere una certa azione; questo assenso, secondo Crisippo, dipende da noi e non da cause esterne. Ma anche le cause interne, ossia la natura propria di ciascuno, come si è visto, rientrano nella concatenazione necessaria del tutto, che gli stoici chiamano fato o destino. L’uomo non può sottrarsi al fato e alla catena di eventi che lo caratterizza, ma è in suo potere di assentire a questo ordine necessario (il cane che segue il carro che lo trascina), qualora sia riconosciuto nella sua razionalità . La libertà  non consiste, infatti, nella scelta tra alternative, ma nel seguire deliberatamente di propria volontà  ciò che è dettato dal fato. Solo il sapiente è per gli stoici perfettamente libero, perchò lui soltanto conosce l’ordine razionale dell’universo e da ciò gli deriva una gioia tale da essere felice anche se sottoposto a tortura; i più, invece, sono soltanto schiavi, che, come il cane dell’esempio, sono trascinati loro malgrado. Anche nella teoria degli stoici, dunque, come già  in quelle di Platone o Aristotele, la libertà  è invocata a conferma del primato della vita filosofica. In questo senso, la schiavitù diventa soltanto una metafora della vita morale: è la condizione nella quale si trovano i più, che non sono padroni di se stessi. Ciò rende anche irrilevante la schiavitù giuridica, che rientra soltanto nel dominio dell’accidentale, non ha fondamento nella natura: anche uno schiavo, proprietà  di un altro uomo, può essere in linea teorica un sapiente e un uomo buono, ma proprio per questo non è importante la sua liberazione dalla condizione giuridica di schiavo. Tutti gli uomini sono schiavi del destino e non ha dunque importanza se alcuni siano in catene d’oro e altri in catene di vile ferro, la loro condizione ò la stessa. Ciò non toglie che certo stoicismo (Seneca e Posidonio) inviti con vigore ad essere umani verso gli schiavi. La vera liberazione diventa, per gli stoici, quella dalla schiavitù, puramente metaforica, del vizio. Già  Zenone sosteneva che solo i sapienti sono veramente liberi, cittadini e amici tra loro. Si tratta dunque di una città , anche questa metaforica, di soli sapienti, una città  normativa, nella quale i più, inevitabilmente ostili e malvagi tra loro, non possono aver parte. I sapienti costituiscono una comunità  che si allarga a una dimensione cosmica: in ciò risiede il nucleo del cosmopolitismo stoico: non a caso Seneca dirà  “noi stoici, con generosità , non ci siamo rinchiusi tra le mura di una sola città , ma ci siamo aperti al mondo, e abbiamo proclamato il mondo nostra patria per poter dare un più vasto campo d’azione alla virtù”. Questa città  cosmica è retta da una legge naturale, le cui norme sono dettate dalla ragione universale, non dagli interessi e dalle consuetudini proprie delle singole città ; esse hanno quindi validità  universale e sono superiori alle leggi positive stabilite nelle varie comunità . Diversamente dagli epicurei, gli stoici enunciano il precetto secondo cui il sapiente partecipa alla vita politica, ma con esso difficilmente intendevano determinare il contesto istituzionale della sua azione: il vero raggio di orizzonte del sapiente è l’intero cosmo. Nel decennio fra il 235 e il 225 a. C. uno stoico, Sfero di Boristene, allievo di Zenone, fu ispiratore della riforma dell’educazione giovanile e forse anche delle riforme agrarie di carattere egualitario introdotte da Cleomene a Sparta, ma di fatto, in età  ellenistica, la maggior parte dei membri della scuola stoica non fu protagonista di attività  politica diretta. Di grande fortuna godrà  la scuola stoica, a tal punto da vivere ben tre fasi distinte: dopo l’antica Stoà  di Zenone e Crisippo, si svilupperà  la media Stoà  di Panezio e Posidonio, che ammorbidirà  le punte più estremistiche dello stoiscimo, rendendolo in tal modo compatibile con il mondo romano; infine, si avrà  un terzo periodo – la cosiddetta nuova Stoà  â€“ in cui corifei dello stoicismo saranno Seneca, il liberto Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio.

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