Gli interessi di Leibniz per la logica si manifestano a partire e soprattutto negli anni della giovinezza; la sua metafisica stessa giustifica la concettualizzazione o pensabilità dell’ infinito e perciò dà il primo posto alla logica dell’ infinito stesso. La sua prima organica e pressochò definitiva esposizione della sua teoria logica, ossia la Dissertatio de arte combinatoria, risale infatti al 1666 ( anno dell’ incendio di Londra ), quando egli aveva solo 20 anni. Il grande e ambizioso obiettivo di Leibniz è trovare un metodo logico che matematizzi il pensiero, eliminando da esso ciò che vi è di soggettivo e riconducendo le operazioni mentali ad una sorta di calcolus ratiocinator, un pò come aveva sostenuto Hobbes, di cui peraltro Leibniz ammette di sentire l’ influenza nel suo pensiero. In questo modo, per risolvere una controversia teorica, dovrebbe essere sufficiente sedersi a tavolino e dirsi a vicenda ” calcoliamo “. Attraverso questa riconduzione alla matematica, tipica del 1600, la logica deve svolgere una duplice mansione: da un lato deve dimostrare gli enunciati con assoluta certezza, e in questo si riprende e si sviluppa la funzione della logica sillogistica di Aristotele, dall’ altro lato deve permettere di inventare nuovo sapere attraverso la combinazione delle conoscenze già acquisite, e in questo si riprende il progetto dell’ ars combinatoria esposto dal filosofo medioevale Raimondo Lullo. Per conseguire questi scopi occorre procedere nel seguente modo: in primis, l’ intero contenuto del pensiero deve essere ridotto a un numero definito di concetti semplici, da cui possano derivare tutti i concetti composti: si tratta di scoprire una specie di alfabeto dei concetti che costituisca per il pensiero l’ analogo di ciò che l’ alfabeto letterale rappresenta per la lingua e la scrittura. In verità Leibniz non riuscì mai a determinare quali fossero i concetti semplici, ed è proprio in questo che consiste la debolezza della sua proposta, tuttavia egli pensava alla possibilità di una loro catalogazione generale, alla quale avrebbero dovuto concorrere studiosi di diverse discipline e di diversi paesi. In secondo luogo Leibniz vuole assegnare a ciascun concetto un carattere, ossia un simbolo, che lo rappresenti, in modo da poter operare su simboli anzichò sui concetti; simultaneamente è necessario ordinare i caratteri in modo che le loro relazioni corrispondano effettivamente a quelle dei pensieri. Si tratta dunque di determinare la characteristica universalis, cioò la lingua del pensiero con la sua struttura, grammaticale e sintattica. Ed è proprio per questo che si tende a considerare Leibniz lo scopritore della moderna logica formale: pur essendo sempre arduo ricercare tali paternità , è comunque indiscutibile che egli abbia esercitato una profonda influenza sul pensiero logico di gran parte dell’ Ottocento. In base a questa logica la verità sta nel fatto che la combinazione dei concetti avvenga senza comportare alcuna contraddizione: per esempio, se parlo del quadrato triangolo dico una falsità perchò accosto due concetti che si contraddicono l’ un l’ altro. Con ciò è già adombrato l’ assunto fondamentale delle più mature riflessioni logiche di Leibniz: la verità si fonda sul principio di identità . Una proposizione è identica, e quindi vera, se in essa il predicato è già contenuto nel soggetto: quando dico che un triangolo ha la somma degli angoli interni di 180 gradi, affermo un predicato ( l’ avere la somma uguale a 180 ) che è già implicito nel soggetto, in quanto è una proprietà che entra nella definizione del concetto di triangolo. Al principio di identità ( A = A ) è riconducibile anche il principio di contraddizione come sua variante in negativo ( A non è = non A ). Le verità fondate sui principi di identità e contraddizione hanno il nome di verità di ragione e hanno la peculiarità di essere necessarie e infallibili. Essendo fondate solo sul rapporto formale dell’ identità o della contraddizione tali verità si riferiscono solo a ciò che è logicamente possibile come concetto astratto, indipendentemente dal fatto che esso sia o non sia realizzato nella realtà . Accanto alla verità di ragione Leibniz pone le verità di fatto ( pensiamo a Machiavelli e alla verità effettuale ), delle quali è sempre possibile il contrario: ad esempio, Cesare ha passato il Rubicone, ma avrebbe potuto anche non passarlo senza che ciò comportasse alcuna contraddizione. Il passaggio del Rubicone non è giustificato dall’ impossibilità del suo contrario, ma da qualche ragione sufficiente a spiegarlo ( per esempio l’ ambizione di Cesare ). Le verità di fatto sono quindi contingenti e si fondano sul principio di ragion sufficiente che viene da Leibniz così formulato: Nulla accade senza una ragione sufficiente, cioò senza che sia possibile a chi conosca in profondità le cose dare una ragione che sia sufficiente a determinare perchò è accaduto così e non altrimenti. Le verità di fatto, però, Leibniz non le contrappone completamente a quelle di ragione. Per chi abbia una conoscenza assoluta delle cose, è possibile vedere come anche nelle verità di fatto, attraverso un numero indefinito di passaggi logici, il predicato ( ” ha passato il Rubicone ” ) sia già contenuto nel concetto del soggetto ( ” Cesare ” ). In questo modo anche le verità di fatto verrebbero ricondotte a proposizioni identiche e quindi a verità di ragione. La sola differenza sarebbe che nel caso di quest’ ultime l’ identità tra soggetto e predicato è immediata o mediata da pochi passaggi intermedi ( e quindi conoscibile anche dalla mente finita dell’ uomo ) mentre nel caso delle prime essa presuppone un numero infinito di passaggi ( e dunque può essere conosciuta solo da una mente infinita come quella di Dio ).
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