Accanto alle scuole filosofiche esistono individui che praticano la filosofia senza risiedere in luoghi stabili oppure senza raccogliere intorno a sò gruppi permanenti e discepoli. Un esempio lampante di questo tipo di filosofo è Diogene di Sinope (400-325 a. C. circa) che visse ad Atene e divenne ben presto l’esempio del sapiente cinico, che mira alla completa autosufficienza (autarkeia) rispetto ai bisogni indotti dalla vita in società . Nessuno dei suoi scritti ci è pervenuto, ma intorno alla sua figura fiorì una vasta letteratura di aneddoti, dalla quale è possibile inferire i tratti dominanti del suo insegnamento. Riprendendo la distinzione tra natura (fusiV) e leggi o convenzione (nomoV) â distinzione al centro della speculazione sofistica -, Diogene individua i modelli di vita naturale nel comportamento degli animali, dei mendicanti e dei bambini. Con Diogene emerge, forse per la prima volta sullo scenario greco, l’idea che il bambino rappresenti una natura buona non ancora corrotta dai bisogni artificiali prodotti dalla vita associata, in contrapposizione all’ideale corrente (avvalorata dallo stesso Aristotele) che vedeva nell’uomo maturo l’esemplare del vero uomo e il bambino come mero “uomo in potenza”, privo di valore in sò. Partendo da questi presupposti, Diogene rifiuta drasticamente, non senza esibizionismo, le convenzioni e i tabù sessuali e alimentari (per esempio, cibarsi di carni non cotte), oltre che i valori correnti come la ricchezza, il potere, la gloria. Il cinico si addestra a ciò con un duro esercizio (askhsiV) fisico e morale â basti ricordare che Diogene per dimora aveva una botte – e non attraverso indagini teoriche, che egli svalutava completamente, sulla scia del fondatore del cinismo (Antistene). In tal modo, egli mira a porsi in una situazione al tempo stesso di eccezionalità e di marginalità rispetto alla vita del cittadino integrato nella poliV, ma senza pretendere di costruire forme alternative di organizzazione politica. Il filosofo cinico non è radicato in una città , anche se vive itinerando per le città , dove presenta se stesso come modello di vita. La libertà di parola (parrhsia), che negli aneddoti sulla sua vita Diogene rivendica anche di fronte ad Alessandro Magno, è nel parlare francamente senza timore ai potenti, non nel diritto di esprimersi in organismi dove si prendono decisioni politiche. Un’ampia sezione del libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio è dedicata a Diogene il cinico e alla fama che aleggiava intorno alla sua enigmatica figura. Essa dà un’idea del modo in cui era costruita la biografia esemplare di un filosofo destinata alla lettura da parte di un pubblico che non fosse formato di soli filosofi. Ingredienti di essa sono, più che dottrine o ragionamenti articolati, osservazioni di fatti della vita di Diogene, per esempio l’influenza che i comportamenti degli animali o dei bambini hanno rispetto alle scelte decisive della vita, in primo luogo a proposito della necessità di limitare drasticamente i bisogni. Il modo di vita del cinico, nel modo di vestire, nel tipo di abitazione e così via. Inoltre, egli impartisce i suoi insegnamenti, più che attraverso lunghi discorsi o complicati ragionamenti, mediante battute rapide e incisive (dette “apoftegmi”) o addirittura attraverso i gesti, come mettendosi a camminare per rispondere a colui che, come Diodoro Crono, appartenente al filone megarico, negava la realtà del movimento. Riportiamo qui alcuni passi sulla vita e sulla filosofia di Diogene: “giunto in Atene si imbattò in Antistene. Poichò costui, che non voleva accogliere nessuno come alunno, lo respingeva, egli, assiduamente perseverando, riuscì a spuntarla. Ed una volta che Antistene allungò il bastone contro di lui, Diogene gli porse la testa aggiungendo: “Colpisci pure, chò non troverai un legno così duro che possa farmi desistere dall’ottenere che tu mi dica qualcosa, come a me pare che tu debba”. Da allora divenne suo uditore, ed esule qual era si dedicò ad un moderato tenore di vita (… ). Una volta vide un topo correre qua e là , senza mòta (non cercava un luogo per dormire nò aveva paura delle tenebre nò desiderava alcunchè di ciò che si ritiene desiderabile) e così escogitò il rimedio alle sue difficoltà . Secondo alcuni, fu il primo a raddoppiare il mantello per la necessità anche di dormirci dentro, e portava una bisaccia in cui raccoglieva le cibarie; si serviva indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione o per dormirci o per conversare. E soleva dire che anche gli Ateniesi gli avevano procurato dove potesse dimorare: indicava il portico di Zeus e la Sala delle processioni. In un primo tempo si appoggiava al bastone solo quando era ammalato, ma successivamente lo portava sempre, non tuttavia in città , ma quando camminava lungo la strada, insieme con la bisaccia (… ). Una volta aveva ordinato ad un tale di provvedergli una casetta; poichò quello indugiava, egli si scelse come abitazione una botte, come attesta egli stesso nelle Epistole. E d’estate si rotolava sulla sabbia ardente, d’inverno abbracciava le statue coperte di neve, volendo in ogni modo temprarsi alle difficoltà (… ). Una volta vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: “Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità “. Buttò via anche il catino, avendo pure visto un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie nella parte cava di un pezzo di pane. Ecco come ragionava: “Tutto appartiene agli dei; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa”. Una volta vide una donna che supplicava gli dei in atteggiamento piuttosto sconveniente e le disse: “Non pensi, o donna, che il dio può stare dietro di te, poichò tutto è pieno della sua presenza, e che tu debba vergognarti di pregarlo scompostamente? ” (… ). In ogni modo egli era senza città , senza tetto, bandito dalla patria, mendico, errante, alla ricerca quotidiana di un tozzo di pane. Era solito dire di opporre alla fortuna il coraggio, alla convenzione la natura, alla passione la ragione. Mentre una volta prendeva il sole, Alessandro Magno sopraggiunto e fattogli ombra disse: “Chiedimi quel che vuoi”. E Diogene, di rimando: “Lasciami il mio sole”. Così rispose ad un tale che sosteneva che non esistesse il movimento: si alzò e si mise a camminare”. Per Diogene il vero piacere consisteva nell’avere l’anima in allegria e in pace e che senza di questo nò le ricchezze di Medo nò quelle di Ciro fossero utili. Il sovrano Alessandro, per farsi gioco di lui che veniva chiamato il cinico, gli mandò un vassoio pieno di ossi e lui lo accettò e gli mandò a dire: “Degno di un cane il cibo, ma non degno di re il regalo”. Riferisce Diogene Laerzio: Navigando infatti verso Egina, fu preso dai pirati il cui capo era Scirpalo. Fu portato a Creta ed ivi esposto alla vendita. E chiedendogli l’araldo che cosa sapesse fare, Diogene rispose: ‘Comandare agli uomini’. Fu allora che egli additò un tale di Corinto che indossava una veste pregiata di porpora, il predetto Seniade, e disse: ‘Vendimi a quest’uomo: ha bisogno di un padrone’. Seniade, invero, lo compra e lo porta a Corinto. Qui gli affidò l’educazione dei figli e l’amministrazione domestica. Diogene curò l’amministrazione in ogni riguardo, in modo tale che Seniade andava in giro dicendo: ‘Un demone buono ò venuto a casa mia’. (… ) Il medesimo Eubulo attesta che Diogene invecchiò presso Seniade e, morto, fu seppellito dai suoi figli. Chiedendogli al tempo Seniade come volesse essere seppellito, egli replicò: ‘Sulla faccia’. Domandandogliene quello la ragione, Diogene soggiunse: ‘Perchè tra poco quel che ò sotto si sarà rivoltato all’insù’. Disse questa battuta perchè ormai i Macedoni dominavano, o da umili erano diventati potenti.
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