William Whewell fu certamente una delle più importanti e influenti figure di intellettuale, filosofo, “polymath”, cioò individuo di vastissimi interessi ed erudizione enciclopedica, del XIX secolo nel Regno Unito di Gran Bretagna. Lo testimoniano le opere composte su svariati argomenti quali la meccanica, la mineralogia, la geologia, l’astronomia, l’economia politica, la teologia e, persino, l’architettura. Fu per lungo tempo Presidente della British Associastion for the Advancement of Science, membro della Royal Society e Master del Trinity College di Cambridge. La sua importanza in ambito filosofico deriva dalle sue opere di storia della scienza e di filosofia della scienza. Questo scritto si basa in gran parte sulle note di Laura Snyder reperibili all’indirizzo, ma sviluppa alcuni punti in modo sicuramente diverso. Qualche nota biografica William Whewell nacque nel 1794 a Lancaster, primogenito di un mastro-carpentiere. Di intelligenza precoce, fu ritenuto molto promettente dal suo parroco che persuase il padre a fargli proseguire gli studi all’Haversham Grammar School a Westmoreland. Nel 1812 entrò al Trinity College e nel 1814 vinse anche un premio per la composizione del poema epico Boadicea. Nonostante la scoperta della vena letteraria, non trascurò affatto il lato matematico della sua formazione, ed, anzi, lo intensificò, dimostrando di avere una grande attitudine a questo tipo di studi. Nel 1825 divenne prete anglicano; nel 1828 ottenne una cattedra in mineralogia, ma fu solo nel 1838 che divenne Professor of Moral Philosophy. Nel 1841 sposò Cordelia Marshall, e poco dopo fu nominato Master of Trinity College, su calda raccomandazione del primo ministro Robert Peel. A seguito della scomparsa della prima moglie, si sposò una seconda volta con Lady Affleck. Morì nel 1866. Il contesto culturale: tra romanticismo ed empirismo risorge il criticismo Per avere idea dell’importanza di Whewell occorre un rapido colpo d’occhio allo stato del dibattito filosofico in Inghilterra nei primi decenni del secolo. Scrive in proposito Stefano Poggi: «I mutamenti che lo sviluppo della conoscenza scientifica nella riflessione filosofica, nelle “concezioni del mondo” non mancano di dar luogo, anche in Gran Bretagna, ad un certo movimento di reazione o, comunque di conservazione. Viene così rivendicata l’importanza dell’individualità , della riflessione interiore. Con Coleridge – e poi, ma ormai verso la metà del secolo, con Carlyle – prende consistenza un atteggiamento di pensiero ormai sensibile ad alcuni motivi della filosofia dell’idealismo tedesco: una forte ispirazione non solo idealistica, ma romantica (da ricondurre assai spesso a Schelling) spinge alla polemica contro la tematica del “senso comune” e, più in generale, induce a negare che la conoscenza scientifica possa assicurare una reale liberazione dello “spirito”. » ( da Introduzione al Positivismo) Allo stesso tempo anche la tradizione empirista trovò nuovo slancio, soprattutto attraverso John Stuart Mill, il quale non mancò di introdurre nel dibattito filosofico di quegli anni alcuni elementi della filosofia comtiana. Ma in contrasto con queste tendenze, specie a partire dagli anni ’30, si ebbe una riapertura al pensiero kantiano, soprattutto grazie a W. H. Hamilton. Annota ancora Stefano Poggi: « Il criticismo sembrava fornire strumenti assai potenti per operare una sorta di “revisione” dei temi di fondo della tradizione empiristica. Questa linea di riflessione contraddistinta anche dall’attenzione per la storia del pensiero scientifico e filosofico moderno – affrontava sopratutto i problemi dell’induzione e dell’ipotesi. Il dibattito apertosi con il Preliminary Discourse di Herschel veniva così ad ampliarsi, in primo luogo con il contributo di una delle figure più rappresentative ed attive sul piano della riorganizzazione degli studi scientifici in Inghilterra: William Whewell. Nella sua History of the Inductive Sciences (1837) e ancor più nella Philosophy of Inductive Sciences (1840), Whewell assegnava rilievo particolare al problema della formulazione delle ipotesi. » (idem) La storia delle scienze Per Whewell fu subito evidente che per portare alla luce i modelli ed i metodi utilizzati nelle scienze era fondamentale privilegiare la ricostruzione storica ed obiettiva delle scoperte scientifiche. Lo storico della scienza deve saper trovare una sintesi, laddove sia possibile, o comunque trovare quanto vi ò di comune a discipline anche distanti, obbligandosi a rispettare le eventuali anomalie e discordanze di procedura. Nel tentare questa sintesi, Whewell scelse di evidenziare che tutte le scienze si sviluppano dal confronto tra idee e dati di fatto. Che era come dire che la tradizione razionalista (la preminenza delle idee da cui dedurre) e quella empirista (i fatti da cui indurre), in filosofia fiere avversarie, solo nella scienza da un lato, e nel criticismo kantiano dall’altro, avevano trovato un modo di convivenza accettabile, se non proprio armonioso. L’interpretazione dei processi cognitivi e della conoscenza scientifica in generale doveva pertanto cominciare dalla constatazione che esisteva una polarità tra idee (spesso frutto della conoscenza preesistente individuata da Aristotele) e dati di fatto dell’esperienza. “Armato di questo principio – scrive John Losee – cercò di dimostrare il progresso di ciascuna scienza ricostruendo la scoperta dei dati di fatto ad essa pertinenti e la loro integrazione nel contrasto di idee appropriate. ” (da Filosofia della scienza – Il saggiatore – Milano, 2001) Idee e dati di fatto: quando un’idea ò anche un dato di fatto Tutta la conoscenza trae origine da questo dualismo tra la dimensione oggettiva e la dimensione soggettiva; Whewell definì questo dualismo la fondamentale antitesi della conoscenza. Per Whewell le idee fondamentali non vengono solo dalle percezioni e dalle osservazioni del mondo, “non sono una conseguenza dell’esperienza, ma un risultato della particolare costituzione ed attività della mente, che ò indipendente da tutte le esperienze nella sua origine, sebbene costantemente combinata con l’esperienza nel suo esercizio. ” (1858 a, I, p. 91) Whewell parlò a volte di dati di fatto in termini di resoconti delle nostre percezioni di eventi ed oggetti, ma sottolineava anche che questi resoconti erano solo un tipo di dati di fatto. Esistevano altri dati di fatto e, per esempio, mostrò che anche le leggi di Keplero erano state per Newton dati di fatto. Fu muovendo da essi che Newton aveva elaborato la propria teoria. Per Whewell una teoria poteva essere, dunque, un dato di fatto alla stessa stregua di un oggetto o di un evento nel momento stesso in cui serviva da supporto ad un’altra teoria. Le idee, dal canto loro, erano per Whewell sopratutto principi razionali, una sorta di regole finalizzate al collegamento appropriato dei dati di fatto. D’accordo con Kant, fu quindi persuaso che le idee si imponevano alle sensazioni, e non venivano derivate da esse. Ma cosa intendeva, più precisamente, Whewell per idea? Questo punto sarebbe da chiarire con maggiore dovizia di particolari. Per ora dovremo accontentarci di questo: oltre alle idee intese come nozioni generali e fondamentali quali quelle di spazio, tempo, causa, numero, Whewell riconobbe l’esistenza di idee elementari di particolari scienze, quali l’affinità elettiva in chimica, le forze vitali in biologia e i tipi naturali in tassonomia. Ma Whewell si guardò bene dall’elaborare una lista delle idee elementari. Credeva che esse sarebbero emerse dallo sviluppo delle singole scienze. Il contenuto della percezione e la contestualizzazione dell’evento o dell’oggetto Per Whewell il dato di fatto puro, separato da ogni idea, o meglio, da ogni categoria, non esiste. Spazio, tempo, numero, inquadrano ogni oggetto ed ogni evento, lo contestualizzano. Di conseguenza, perfino i dati più elementari implicano qualcosa che ha il carattere della teoria. Quando parliamo di fatti, ecco che voleva dire Whewell, non siamo sempre consapevoli del modo con il quale le nostre fondamentali categorie mentali (quelle che rispondono alle domande: dove, quando, quante volte, perchò? ), leggono la nostra esperienza sensibile. Ma esse intervengono sempre a priori. Ovviamente anche le teorie che sono insieme dati di fatto, vengono contestualizzate. Quando definiamo un ragionamento generale come teoria, attribuiamo grandissima attenzione alle teorie che supportano il ragionamento stesso e pertanto non ricorriamo a leggi chimiche se dobbiamo spiegare come si ottiene il volume di un tronco di cono. Tuttavia, se la teoria ò sempre un’inferenza conscia, il dato di fatto a volte ò un’inferenza inconscia. Scriveva in proposito: «… abbiamo ancora una distinzione intellegibile tra dato di fatto e teoria, se consideriamo la teoria un’inferenza conscia, e il dato di fatto un’inferenza inconscia che prende le mosse da fenomeni che si presentano ai nostri sensi. » (da The Philosophy of Inductive Sciences founded upon their History – Parker – London – 1847) L’induzione Un volume della 3° edizione di Philosofy of Inductive Sciences founded upon their History si intitolò Novum Organum Renovatum. Era evidente, ai limiti della provocazione, che Whewell aspirava ad un tempo sia a richiamare l’attenzione su Bacone ed il metodo induttivo, sia a criticarlo per rinnovarlo. Da quel che ho capito, anche Whewell considerava ristretto il concetto di induzione come semplice enumerazione di istanze. Nell’induzione c’ò un nuovo elemento aggiunto alla combinazione di istanze, ed esso ò il risultato di un atto del pensiero che con esse si combina. Whewell definì questa mossa del pensiero colligation, in antitesi a collection, e voleva significare che l’induzione produce la colligation, ovvero l’operazione capace di selezionare e tenere insieme un certo numero di fatti empirici, descrivendoli con una legge generale in grado di mostrarne le proprietà . In sostanza Whewell mostrò che l’induzione ò un processo dinamico, e che la spinta proviene sia dallo stimolo, ciò che attira la nostra attenzione, sia dal nostro modo interno di organizzare e combinare in modo appropriato i dati. Modelli di scoperta scientifica Whewell asserì di aver riconosciuto nella sua ricognizione della storia delle scoperte uno sviluppo articolato in tre fasi: un preludio, un momento induttivo e un seguito. Intendeva per preludio la raccolta dei dati, la loro configurazione e scomposizione, il chiarimento dei concetti. Il momento induttivo era concepito da Whewell come l’applicazione di un certo modello concettuale ai dati stessi. Il seguito veniva descritto come integrazione e consolidamento tra dati e teoria. E’ importante osservare che il preludio per Whewell non ò una qualsiasi fase congetturale, un guesswork; infatti affermò: « Here is a special process in the mind, in addition to the mere observation of facts, which is necessary. » E ancora: ” We infer more than we see. ” Il problema fu dunque trovare le regole con le quali collegare una classe di fenomeni, oggetti, eventi, attraverso inferenze appropriate. Si tratta di un problema delle pertinenze, presentabile come the generalization of the shared property over the complete class, including its unknown members, ovvero come l’estensione-generalizzazione di proprietà condivise di una classe completa anche ad ai mebri sconosciuti della classe stessa. Whewell fece riferimento alle procedure newtoniane come esempio. Newton aveva inglobato nel suo metodo, come dato di fatto, la teoria di Keplero sulle ellissi formate dai pianeti in orbita attorno al sole. Ma lo stesso Keplero aveva, a sua volta, sempliicemente esteso le proprietà osservate nell’orbita di Marte a tutti i membri della classe pianeti. Questo tipo di approccio portò Whewell a rifiutare l’idea di Herschel, secondo la quale anche ipotesi scientifiche non avanzate attraverso procedure razionali, potevano essere confermate da tests. Nel recensire il Preliminary Discourse on the Study of Natural Philosophy, Whewell affermò che non ò possibile alcuna verifica di ipotesi non risultanti da un procedimento induttivo. Tuttavia, ò necessario sottolineare che Whewell non volle negare con ciò il talento del singolo: infatti anche se la procedura induttiva ò comune a tutti, solo alcuni sono in possesso di “quel lampo di genio” in grado di portare alla formulazione esatta di una teoria. John Losee scrive in proposito: « La principale tesi whewelliana sull’induzione afferma che il processo della scoperta scientifica non può essere ridotto a regole. Comunque Whewell riconosceva che considerazioni di semplicità , continuità e simmetria venivano spesso affermate come principi regolativi nella scelta delle ipotesi. (idem) La conferma In questa luce assumeva decisiva importanza il problema della conferma, che per Whewell, a differenza che per Herschel, non si pone in termini di falsificazione della teoria (tutto ciò che la può smentire) ma di verifica, ovvero tutto ciò che depone a suo favore. Indubbiamente quello di Whewell potrebbe sembrare un passo indietro, ma lo ò solo in apparenza perchò mentre Herschel, vedeva di buon occhio chiunque avanzasse qualsiasi ipotesi, Whewell si era mostrato molto più cauto: prima di aprir bocca sincerarsi che le cose stiano proprio così. In altre parole: per Whewell era ovvio che qualcosa di simile alla falsificazione avviene prima che la teoria sia stata resa nota; con ciò evitiamo brutte figure. La prudenza dell’induttivo, dunque, era per Whewell il non plusultra. Ogni nuova teoria doveva passare una seri di tests deduttivi prima di essere considerata come vera. Con ciò si intende che se ò vero che tutti gli uccelli hanno le ali, allora, sillogisticamente, deve essere che quello, essendo un uccello, ha le ali. Punto di non poco conto ò che si deduce dalla proprietà universale riconosciuta, l’avere le ali, solo che gli uccelli hanno le ali, non l’inverso, perchò, ad esempio, anche il pistrello ha le ali, ma non ò un uccello. Ora ò evidente che questo tipo di asserzione non ha particolare bisogno di falsificazione, ma solo di conferme. Al contrario: l’asserzione tutti gli animali con le ali sono uccelli potrebbe essere smentita dal fatto che noi incontreremo un giorno un cavallo alato, un pipistrello, od anche un volatile rettile od un pesce volante, o una farfalla. Ed ò questa asserzione azzardata che richiede falsificazione, cioò tutte le riserve che riusciamo ad avanzare rispetto alla nostra asserzione, piuttosto audace ed entusiastica. I tests deduttivi invocati da Whewell furono sostanzialemente tre: predizione (prediction), concordanza (consilience, parola che nemmeno l’Hazon riporta) e coerenza (coherence) L’esame della predizione consisteva ovviamente nel fatto che una teoria deve poter prevedere i fenomeni. E così spiegava la questione: « Affinchò il nostro assenso alle ipotesi implichi che sia tenuta ferma la verità di particolari istanze, sia che queste appartengano al passato o al futuro, sia che siano o non siano accadute, non fa differenza nell’applicabilità delle regole ad essi. Perchò la regola persista, essa include tutti i casi (185b, p. 86) Un esempio di predizione fu l’applicazione della teoria newtoniana alla scoperta del pianeta Nettuno (1846). Solo utilizzando il modello newtoniano fu infatti possibile stabilire a priori che doveva esistere un pianeta, con quella locazione e quella massa per spiegare le anomalie dell’orbita di Urano. Chiunque non avesse confidenza con la teoria newtoniana, non avrebbe potuto e non potrebbe che considerare sbalorditiva e miracolosa la predizione. In realtà essa era solo il frutto di una deduzione. La consilience (concordanza) era, secondo Whewell, un tipo particolare di evidenza che chiamò jumping together, probabilmente nel senso di superare con un balzo il limite che recinge una classe di fatti. La concordanza consente di collegare fatti, oggetti ed eventi appartenenti ad un’altra classe. Ciò ò particolarmente significativo quando la seconda classe di fatti ò apparsa in un primo tempo non collegabile alla prima. Ad esempio Whewell citò la forza di gravitazione universale, dalla quale furono inferite le perturbazioni dei moti planetari, e la processione degli equinozi (1847, II, p. 66) Quanto al criterio della coerenza va inteso subito che Whewell rimarcò la forte differenza rispetto alla concordanza. Spiegò così la questione: nel caso di una teoria vera, essa può essere estesa ulteriormente e senza modificazioni. Nel caso di una teoria falsa, questo non può succedere senza modificazioni ad hoc dell’ipotesi di partenza. Newton non ebbe difficoltà ad estendere la sua teoria dei moti planetari e lunari alla classe della tidal activity, cioò alle maree. Al contrario, la teoria del flogisto in chimica fu seriamente messa in discussione in quanto inadatta a spiegare il peso dei corpi. L’analogia degli affluenti: come Whewell interpretò la storia della scienza Per Whewell la storia della scienza si presenta come uno sviluppo evolutivo simile alla confluenza di affluenti che riforniscono un fiume. Le scienze non procedono per balzi e rivoluzioni, ma per integrazioni e correzioni successive. La sua concezione fu dunque insieme sia selettiva che cumulativa nel quadro di una visione di un progresso tranquillo che non quadra esattamente con la storia vera, caratterizzata da rotture e rivoluzioni. Per giustificare questa interpretazione singolare, egli considerò che anche una teoria sbagliata come quella del flogisto in chimica aveva svolto un ruolo positivo, stimolando i chimici a trovare soluzioni più soddisfacenti e complete. Inoltre questa stessa teoria sbagliata avrebbe consentito, secondo Whewell, una classificazione unitaria dei processi di combustione, acidificazione e respirazione. Indubbiamente tutto ciò ò vero in parte, ma l’idea del sapere cumulativo pare francamente piuttosto contestabile. In realtà tutto ciò che la scienza ha superato, cadde e continua a cadere spesso e volentieri nel dimenticatoio, gettando via bambino ed acqua sporca, quindi anche quelle contestualizzazioni che proprio Whewell aveva tanto care. Ma, quel che ò peggio, ò che nel superarsi continuo della scienza, vanno perduti sia antichi saperi che non erano semplici credenze o superstizioni, ma scienza nel vero senso della parola, ad esempio le proprietà medicinali delle erbe, e sia piste battute fino ad un certo punto e poi tralasciate perchò richiedevano investimenti di tempo e denaro inauditi. Del resto Whewell, nel suo tempo decisamente filantropico, popolato da studiosi del tutto eroici e disinteressati al guadagno (al più attirati dall’idea di farsi un nome), non poteva avere ancora chiaro che 1) la scienza poteva essere usata anche in senso distruttivo; 2) che a decidere cosa studiare e ricercare sarebbero stati i privati per trarne vantaggi economici, e i governi per trarne vantaggi di prestigio, militari e così via. La verità necessaria Come scrive D. Oldroyd, dunque, «Whewell credeva [… ] che le tendenze complessive della ricerca scientifica implicasse un avvicinamento progressivo alla scoperta della verità . A suo giudizio, la ragione per cui si poteva aver fiducia nel carattere progressivo della scienza consisteva nel fatto che di tanto in tanto era possibile conseguire concordanze (consiliences) di induzioni che consentivano di accertare qualche verità . [… ] nella storia della scienza, quelli che inizialmente erano formule disparate, fatti o teorie isolate, venivano gradualmente sussunte sotto leggi e teorie di livello di generalità crescente. Per esempio, fenomeni in apparenza distinti e separati come i moti osservati dei pianeti, le maree e la caduta delle mele dagli alberi di mele, potevano infine essere spiegati tutti in riferimento alla teoria newtoniana della gravitazione universale. »(da Storia della filosofia della scienza, Il Saggiatore – Milano 1989) Questa lunga marcia di avvicinamento rappresentava per Whewell lo stesso scopo della filosofia della scienza, ovvero la ricerca della verità necessaria, la quale può essere conosciuta a priori solo se non si tratta di una verità sintetica. Su questo piano egli si scostò quindi da Kant, per il quale 2+3 = 5 era una verità sintetica a priori. Il ragionamento di Whewell muoveva dal fatto che solo la nostra idea di numero, di 2, di 3, di 5, di addizione, e, aggiungerei io, di risultato, ci consente di arrivare alla verità necessaria di 5 come risultato di 2+3. Probabilmente Whewell fraintese Kant nel senso che l’affermazione di verità sintetica a priori circa una qualsiasi operazione aritmetica andava intesa come qualcosa che non richiede verifica empirica, ovvero: noi possiamo sbagliare i conti, ed ò questo che va verificato, ma non possiamo avere dubbi sul fatto che 2+3 ò sempre, e sotto qualsiasi condizione = 5. Le operazioni matematiche contribuiscono dunque a costruire un insieme di certezze su cui contare stabilmente. Whewell, in un primo tempo, si era convinto, proprio per i ragionamenti summenzionati, che il mondo dell’esattezza fosse circoscritto a quello degli assiomi della matematica, mentre le leggi della natura godevano di uno status cognitivo differente. (nel testo Astronomy and General Physics Considered with Reference to Natural Theology – Carey, Lea & Blanchard – Philadelphia 1836) Solo le verità matematiche erano quindi verità necessarie. Ma poi cambiò opinione, asserendo che alcune leggi naturali erano verità necessarie. John Losee spiega così la vicenda: « Whewell era pronto ad ammettere la natura paradossale di questa affermazione. Era d’accordo con Hume che nessun quantitativo di leggi empiriche, per quanto ingente sia, può dimostrare che una relazione non possa essere diversa da quello che ò; eppure credeva che certe leggi scientifiche avevano conseguito lo status cognitivo di verità necessarie. » (Losee – idem) In realtà , si potrebbe dire che Whewell non era affatto d’accordo con Hume; semplicemente aveva preso in considerazione il punto di vista scettico in modo sostanzialmente corretto, ovvero scorgendo tutto quanto di paradossale esiste non solo nell’affermare senza dubbio l’esistenza di leggi causali certe, ma anche la paradossalità dell’affermazione opposta: ovvero che le nostre convinzioni sulla causalità sarebbero solo credenze e abitudini mentali. Tra questi due estremi non ò che esista una semplicistica via di mezzo: esiste semplicemente il buon senso di comprendere che un’arma da taglio calata con violenza sulla carne viva produce una ferita e che questa ò la causa della ferita. Ora, al di là di questa semplice ed immediata constatazione della causa della ferita, si potrebbe anche risalire alle condizioni di tutto l’universo in quel determinato istante, si potrebbe richiamare persino una presunta volontà di Dio circa la mia ferita, ma tutto ciò che a noi serve ò capire quale mano abbia colpito, perchò ha colpito, con quale intenzione ha colpito. Tutto questo ò realisticamente comprensibile ed a questo livello di verità necessaria nessuna mente umana ò preclusa. Whewell, nel tentativo di mostrare quanto fosse insensata l’estremizzazione di un atteggiamento scettico, riprese una distinzione kantiana tra forma e contenuto della conoscenza, estendendola alle leggi fondamentali della natura. Rientrava, dunque legittimamente in gioco l’dea basilare di causa ed il derivato concetto di causalità . Scrive Losee: « Secondo Whewell, il significato dell’idea di causalità si può riassumere in tre assiomi: 1) nulla avviene senza una causa; 2) gli effetti sono proprozionali alle loro cause; e 3) la reazione ò uguale ed opposta all’azione. Spetta all’esperienza, tuttavia, specificare il contenuto di tali assiomi. L’esperienza insegna che la materia bruta non possiede cause interne intrinseche dell’accelerazione, che le forze sono composte in un certo modo e che alcune definizioni di “azione” e “reazione” sono appropriate. Le leggi del moto di Newton esprimono queste scoperte. Whewell riteneva che le leggi newtoniane fornissero le interpretazioni empiriche adeguate degli assiomi di causalità , attingendo così allo status di verità necessarie. » (Losee – idem – riferimento a pp. 245-254 di Philosophy of Inductive Sciences) Whewell seguì dunque una linea di ragionamento empirico induttiva ed analitica per dimostrare il principio delle verità necessarie, ma al fondo del suo ragionamento stavano anche considerazioni teologiche, ricavate per via intuitiva. Secondo Whewell, infatti, il mondo fu creato da Dio in modo conforme alle sue “idee divine”. L’idea di causa, che porta all’assioma “nulla avviene senza una causa” ò un’idea di questo tipo. Seguendo Whewell, noi saremmo in grado di comprendere la struttura della realtà perchò la nostra scienza tende ad assomigliare alle idee impiegate da Dio nella creazione del mondo fisico. Ciò non ò casuale: Dio avrebbe creato le nostre menti ed i nostri sensi in modo tale da poter comprendere e non per venire ingannati. Whewell, in sostanza, era convinto che il procedere della scienza avrebbe portato a ravvisare nell’universo un disegno intenzionale, e dunque la mano di un creatore. Su questo piano, dunque, si differenziò in misura notevole dal mainstream del positivismo, reintroducendo teologia e metafisica, e puntando decisamente a mostrare che la scienza non solo non smentisce la teologia, ma condurrà a confermarla. Questo atteggiamento di gran apertura del teologo Whewell era quanto di meglio si potesse trovare a quel tempo da parte di un uomo di fede e ragione. La filosofia morale La filosofia morale di Whewell fu criticata da Stuart Mill perchò questi ne vide un prototipo dell’etica intuitiva e deduttiva. Mill forzò certamente la mano in modo plateale asserendo che l’impostazione di Whewell veniva a giustificare pratiche come la schiavitù, i matrimoni forzati e la crudeltà sugli animali. Ciò si spiega col fatto che la morale di Whewell si fondava sostanzialmente sul convincimento interiore profondo e non su ragionamenti utilitaristici di morale e senso della giustizia derivati da accordi di cooperazione civile, politica ed economica. Ovviamente le due concezioni erano molto distanti: la morale di Whewell era totalmente deduttiva; muoveva da un modello assiomatico. Quella di Mill era induttiva: muoveva da necessità pratiche, anche se poi finiva col dedurre diversi principi morali dal più generale diritto utilitaristico alla felicità . Probabilmente Whewell trascurò l’aspetto storico- evolutivo del progresso morale. In realtà , prima della comparsa di forme rudimentali di legislazione che, se non altro, proibissero, all’interno della stessa comunità , il furto, l’omicidio ed il matrimonio tra consanguinei, pare assai difficile trovare nella storia umana un saldo principio morale da cui derivare assiomaticamente tutti gli altri. Forse, si potrebbe dire che le prime disposizioni legali furono emanate per evitare uno stato di guerra e tensione permanente all’interno dello stesso clan. Furono fatte, insomma, per favorire la convivenza pacifica, limitando il potere dei forti e dei prepotenti, ed aumentando il diritto dei deboli. E dalla necessità pratica di impedire un regime di violenze e sopraffazioni continue, si originò un primo nucleo di senso morale.
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