Paul Tillich (1886-1965) elaborò una teologia che si colloca in una prospettiva per molti aspetti antitetica rispetto a quella elaborata da Karl Barth. Anch’egli convinto del tramonto del compromesso tra cristianesimo e filosofia ottocentesca (convinto anche attraverso l’esperienza della prima guerra mondiale vissuta in prima persona come cappellano dell’esercito tedesco) militò dapprima nella corrente del “socialismo religioso”, insegnando in diverse università della Germania; quindi, all’avvento del nazismo, fu rimosso dalla cattedra e riparò negli stati Uniti d’America, dove operò fino alla morte nelle università di Columbia, Harvard e Chicago. Come ricorda egli stesso nello scritto autobiografico dal titolo significativo ” Sulla linea di confine “, la doppia esperienza di vita in mondi così diversi fece di lui un teologo “alla frontiera”: immagine che esprime anche lo spirito di tutta la sua teologia, imperniata appunto sul vedere tra l’uomo e Dio un “confine” che, proprio in quanto tale, mentre li separa, li unisce e fonda la loro relazione. Infatti, nella sua opera principale elaborata per più di quarant’anni, la ” Teologia sistematica “, così come negli scritti minori che l’accompagnano, Tillich elabora una prospettiva teologica fondata su quello ch’egli chiama il principio della correlazione: non il “salto” di Barth, che relega Dio in una lontananza inaccessibile, bensì una “mutua relazione” in cui Dio stesso ò scorto come la profondità dell’essere. Non si tratta, dunque, di insistere sul tema della radicale incompatibilità tra teologia e filosofia, quanto di saper scorgere tra di esse, dopo la crisi che ne ha spazzato le vecchie forme, un nuovo e più autentico nesso che risponda ai problemi dell’uomo moderno. Il messaggio cristiano, per essere valido per le generazioni di tutti i tempi, deve poter essere mediato, pur preservando la sua verità intemporale, con le differenti forme di pensiero e di espressione che sono specifiche delle diverse epoche, in modo da essere in grado di instaurare un dialogo anche e soprattutto con i non credenti. Tale compito “apologetico”, misurandosi con l’oggi, potrà anche trovarsi a dover rinunciare alla parola “Dio”, qualora questa appaia troppo sospetta o insignificante, poichè incapace di esprimere ” gli abissi della vita “, la sorgente dell’essere e la sua profondità : in questi elementi risiede infatti la base del dialogo e della possibilità d’intendersi, e chi ò attento alle sfere profonde della realtà non potrà dirsi veramente ateo. In ultima analisi (afferma Tillich di fronte al clima esistenzialistico a cui si mostra estremamente attento) il nome “Dio” deve indicare il luogo di una possibile risposta alle domande dell’uomo, alla sua angoscia e alla sua crisi, e suggerirgli il ” coraggio di esistere “. Tillich rivendica la dimensione “ontologica” della fede, non risolvibile in affermazione teorica nè, tanto meno, in esperienza psicologica. Essa ò piuttosto incondizionata accettazione esistenziale del trascendente, e pertanto non ò un’opinione, ma lo stato di chi si lascia afferrare dall’essere e solo perciò ò in grado di affermare se stesso. Ciò significa che essa ò in fondo l’unica possibilità autentica in un’epoca segnata dalla frammentazione, dall’angoscia e dalla mancanza di significato. Questa possibilità non consiste in una velleitaria pretesa di vincere la disperazione, ma nell’accettazione piena della disperazione stessa, che si rivela paradossalmente positiva proprio nella sua negatività : ò cioò riconoscimento del potere dell’essere nel pieno della stretta del non-essere. ” La fede che rende possibile il coraggio della disperazione ò l’accettazione del potere dell’essere, anche nella morsa del non-essere. Anche nella disperazione del significato l’essere si afferma per mezzo nostro. L’atto di accettare la mancanza di significato ò in se stesso un atto significativo. E’ un atto di fede. Abbiamo visto che chi ha il coraggio di affermare il suo essere nonostante il fato e la colpa, non elimina affatto il fato e la colpa. Continua a essere minacciato e colpito. Ma accetta la sua accettazione grazie al potere dell’essere in sè, al quale partecipa e che gli dà il coraggio di prendere su di sè le angosce del fato e della colpa. Lo stesso si può dire del dubbio e della mancanza di significato. La fede che crea il coraggio di includerli non ha un contenuto speciale. E’ semplicemente fede, indiretta, assoluta. E’ indefinibile, poichè tutto ciò che ò definito ò dissolto dal dubbio e dalla mancanza di significato [â¦]. Il coraggio di esistere ha le sue radici in quel Dio che appare quando Dio ò scomparso nell’angoscia del dubbio “. Questo ò quanto mostra appunto il “principio di correlazione”, che consente di pensare il rapporto fra la domanda dell’uomo e la risposta di Dio. Si può anche dire che l’uomo sia, essenzialmente, una domanda la cui esistenza non ò che la tensione a una possibile risposta che Dio liberamente gli dona, ma nelle forme che via via, nelle diverse condizioni storiche e culturali, l’aspettativa umana ò in grado di recepire. Ciò non vuol dire certamente che tale correlazione sia per Dio necessaria (ciò vorrebbe dire dissolverne la libertà e farlo dipendente dall’uomo) nè che la sua risposta sia in qualche modo forzata dalla domanda umana. Domanda e risposta restano assolutamente indipendenti, nè l’una può essere inferita dall’altra, pur essendole correlativa. E’ dunque necessario esplorare le correlazioni sia dal punto di vista della domanda, sia, per quanto ò possibile, da quello della risposta; e in ciò consiste l’intero movimento della teologia che, recuperando un fecondo rapporto con la filosofia nell’orizzonte della domanda sull’essere dell’uomo, riconosce al contempo il suo fondamento nella rivelazione come luogo della risposta divina. Il nesso di “domanda” e “risposta” si svolgerà allora comprendendo che la rivelazione ò la risposta alle questioni poste dalla ragione, e scorgendo in Dio la risposta al problema dell’essere, in Cristo la risposta al problema dell’uomo, nello Spirito Santo al risposta al problema della vita, nel regno la risposta al problema della storia. La polarità fondamentale viene ovunque riproposta e mantenuta nella sua tensione, sulle orme della visione scissa e problematica dell’uomo che Tillich eredita dall’esistenzialismo e che comunque ò tipica del Novecento. In particolare, bisogna notare che nel trattare della polarità tra essere e Dio Tillich si richiama alla tradizione della mistica tedesca e al pensiero dell’ultimo Schelling. La concezione dell’essere come precarietà e angoscia (quale emerse dall’analisi dell’esistenza umana) e quindi come costitutiva finitezza, non consente più di conferire a Dio il tradizionale attributo dell’essere. Se tuttavia ò necessario vedere in lui la risposta al problema ontologica, alla domanda fondamentale dell’uomo, Dio non potrà dirsi “totalmente altro” dall’essere, quanto piuttosto il suo fondamento, cioò colui che pone l’essere stesso e ne ò Signore. Solo in quanto tale Dio può fornire una risposta al problema dell’essere, risposta che però deve inscriversi, per poter essere colta dall’uomo, nelle condizioni della sua esistenza. Questo il fondamento della Cristologia di Tillich, che vede in Cristo la realizzata unità del divino e dell’umano in una vita storica concreta e data nel tempo, quindi la risposta suprema, ma accessibile a ogni uomo, perchè data nella dimensione dell’umano, in una persona. Se Cristo ò la risposta alla domanda dell’esistenza, il cristianesimo si distingue da ogni limitata forma di religione ed ò anzi ben più di una religione: l’incarnazione ò la chiave di volta del senso della storia, il cui culmine, il regno di Dio, non ò da vedersi come “altro” dal tempo, ma come la sua realizzazione più profonda. La teologia di Tillich confluisce pertanto in una visione escatologica che non annulla la storia, ma che vede nella “vita eterna” l’immanente riscatto del male e della negatività storica.
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- Filosofia - 1900