La banalità del male: il riassunto del libro di Hannah Arendt - Studentville

La banalità del male: il riassunto del libro di Hannah Arendt

“La banalità del male” di Hannah Arendt è un libro scomodo che pone domande che non avremmo mai voluto porci e che dà risposte che non hanno la rassicurante certezza dei ragionamenti manichei.

La banalità del male è un libro della filosofa tedesca naturalizzata statunitense Hannah Arendt (1906-1975), un libro scomodo che pone domande che non avremmo mai voluto porci e che dà risposte che non hanno la rassicurante certezza dei ragionamenti manichei. Un libro che per questo provocò, al suo comparire, nel 1963, accese discussioni e pesanti critiche all’autrice.

Si tratta del resoconto dedicato al giudizio di uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto, scritto da Hannah Arendt tra il 1960 e il 1964, costituito dall’unione di cinque articoli pubblicati sul New Yorker solo nel febbraio-marzo 1963, e che successivamente è stato pubblicato sotto forma di libro che troviamo in libreria con il titolo de La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.

Un libro, quella della Arendt, che ha provocato un terremoto nell’America dell’epoca e non solo. Un testo contestato fin da subito, destinato a far discutere e ormai diventato un classico inserito nei programmi di gran parte dei corsi universitari di filosofia teoria politica. Ma non c’è troppo da stupirsi sui tempi: la Arendt non era una giornalista, ma una fine analista, la sua non è una cronaca dei fatti, ma una salda cogitazione che parte dal processo per giungere alla conclusione dell’assoluta normalità dell’accusato e proprio per questo della pericolosa potenza di disumanizzazione di un discorso, quello totalitario già più volte da lei stessa sviscerato, capace di applicare un’assoluta riduzione dell’umano ad ingranaggio.

Hannah Arendt, La banalità del male

Eichmann, burocrate per eccellenza, non mostra alcun rimorso e incarna nella fredda e meticolosa ripetizione dei dati un attaccamento irragionevole non alla sua opera, ma a quella religiosamente promulgata dal regime. E lì che risiede la spersonalizzazione, il dualismo che lo caratterizza, segnata dalla relativa interruzione di ogni dialettica interiore, l’intelligenza umana si fa mera deriva strumentale, ed apre la strada ad un abisso nel quale anche le vittime partecipano di un doloroso assopimento.

Una conseguenza estratta con rigore filosofico che valse alla Arendt ogni sorta di ostilità da parte delle comunità ebree ben radicate nel tessuto newyorkese, ma anche dell’opinione pubblica, che si limitò in molti casi a rigettare la sua tesi abominevole come l’impossibile difesa di un mostro e a preferire quella più rassicurante di male radicale, promulgata da molta parte della letteratura sull’olocausto e anche dall’amico Hans Jonas, senza rendersi conto, oppure sapendolo e volendone evitare a tutti i costi le conseguenze, che la banalità indicata da Hannah è di natura ancora più insidiosa e assoluta, proprio in quanto accanito perturbatore della stessa nozione d’umanità, ma presente in essa come possibilità e non estraneo, ragione per la quale Eichmann avrebbe dovuto esser condannato per aver attentato alla base stessa dell’umano.

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