Università in sciopero: il grido dei precari contro tagli e riforme

Università in sciopero: i precari contro tagli e riforme

La protesta del mondo accademico italiano è alimentata da preoccupazioni per il futuro della ricerca, a causa di tagli e riforme governative.
Università in sciopero: i precari contro tagli e riforme

La protesta del mondo accademico italiano si innesta su un terreno di crescente preoccupazione per il futuro della ricerca. Il governo ha recentemente attuato una drastica decurtazione di oltre 500 milioni di euro al Fondo di Finanziamento Ordinario, linfa vitale degli atenei pubblici. Parallelamente, è stato interrotto anzitempo il piano straordinario di reclutamento, cancellando risorse già previste per il biennio 2025-2026.

Particolarmente allarmante è la conclusione dei finanziamenti legati al PNRR, che rischia di provocare un vero e proprio esodo dal sistema universitario: circa 10.000 ricercatori a tempo determinato (RTD-A) e più di 24.000 assegnisti di ricerca potrebbero trovarsi senza prospettive professionali.

Ad aggravare il quadro contribuisce il controverso disegno di legge 1240 promosso dal Ministero dell’Università. Nonostante una temporanea sospensione a seguito di un esposto in sede europea, il governo ha recentemente presentato un emendamento al DL 45 che reintroduce, con modalità considerate ambigue, elementi critici della riforma del pre-ruolo universitario, creando nuove figure professionali precarie e con insufficienti garanzie contrattuali.

La mobilitazione nelle università italiane: un dissenso crescente

Il 12 maggio 2025 vedrà il personale precario degli atenei italiani incrociare le braccia in una giornata di sciopero nazionale. A scendere in piazza saranno ricercatori a tempo determinato, assegnisti di ricerca e collaboratori con contratti a termine, tutti uniti contro l’instabilità lavorativa che caratterizza il mondo accademico.

La protesta rappresenta l’apice di un percorso di mobilitazione avviato mesi prima, culminato in numerose iniziative di dissenso come assemblee nazionali, presidi e una significativa giornata di contestazione tenutasi il 20 marzo che ha coinvolto oltre venti atenei.

Diverse sigle sindacali e associative hanno dato voce al malcontento, tra cui FLC CGIL, ADI, CLAP, ADL Cobas, USB, CUB e Confederazione Cobas, evidenziando come la preoccupazione per il futuro della ricerca sia trasversale e condivisa. La partecipazione massiccia alle precedenti manifestazioni testimonia un disagio profondo che attraversa l’intero sistema universitario italiano.

Le rivendicazioni dei precari: un piano concreto per la stabilità

I manifestanti avanzano richieste precise e strutturali. Al centro delle istanze, l’aumento di almeno 5 miliardi di euro al Fondo di Finanziamento Ordinario distribuiti nei prossimi cinque anni. I sindacati chiedono inoltre la valorizzazione dei contratti di ricerca previsti dalla legge 79/2022 e l’adozione di misure di stabilizzazione analoghe a quelle già implementate per il resto della pubblica amministrazione.

Il futuro della ricerca accademica tra incertezze e resistenze

L’assenza di misure strutturali rischia di compromettere irreparabilmente l’ecosistema universitario italiano. Le stime indicano che senza interventi immediati, oltre 30.000 ricercatori potrebbero abbandonare il sistema accademico nei prossimi due anni, determinando un impoverimento senza precedenti del capitale intellettuale nazionale.

La perdita di queste professionalità, formatesi con investimenti pubblici pluriennali, accelererebbe il fenomeno della fuga dei cervelli già in atto, privando il Paese delle competenze necessarie per affrontare le sfide future.

La continuità della mobilitazione potrebbe influenzare significativamente l’agenda politica. L’esperienza di proteste precedenti dimostra che la pressione coordinata della comunità accademica ha la capacità di modificare le traiettorie decisionali del governo, specialmente quando sostenuta dall’opinione pubblica.

L’attenzione mediatica generata dallo sciopero del 12 maggio rappresenta un’opportunità per inserire il tema dell’università tra le priorità nazionali, riconoscendone il ruolo strategico per lo sviluppo economico e sociale dell’Italia.

Solo attraverso un ripensamento delle politiche di finanziamento e reclutamento sarà possibile garantire quella stabilità necessaria per programmi di ricerca competitivi a livello internazionale. La posta in gioco non riguarda solamente le carriere individuali, ma la capacità dell’intero sistema Paese di innovare e produrre conoscenza in un contesto globale sempre più complesso.

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